La Repubblica Democratica del Congo non è soltanto lo Stato più grande dell’Africa sub-sahariana, ma è anche uno dei più malati e dimenticati del continente.
Il Paese, otto volte più esteso dell’Italia, attraversa due fusi orari, ha una popolazione che ha da poco superato i 100 milioni di abitanti e soffre una delle peggiori crisi umanitarie al mondo. Secondo le Nazioni Unite, da marzo 2022 a oggi, più di sette milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case a causa della guerra civile in corso nell’Est del Paese, al confine con il Ruanda. In questa regione il governo centrale si scontra con diverse fazioni ribelli. La più nota è l’M23 (Movimento 23 marzo), un gruppo armato composto soprattutto da persone di etnia tutsi. Oltre a questa, c’è anche il gruppo delle Forze democratiche alleate, conosciute per la loro affiliazione allo Stato islamico. Negli ultimi trent’anni, le persone rimaste vittime delle incursioni di questi gruppi sarebbero più di sei milioni.
L’instabilità del Congo è entrata anche nel dibattito pubblico italiano il 22 febbraio 2021, a seguito dell’assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio (nativo di Saronno e cresciuto a Limbiate), vittima di un agguato nel villaggio di Kibumba, vicino alla città di Goma. Assieme a lui morirono il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e l’autista Mustapha Milambo. Il funerale di Attanasio fu celebrato dall’arcivescovo Mario Delpini, che all’epoca espresse il proprio cordoglio. «È stato ucciso un uomo buono, un diplomatico competente, un giovane intraprendente e, insieme con lui, sono statiuccisi un carabiniere e il loro autista: sono vittime di una violenza incontrollabile e devastante». Nonostante l’episodio, la crisi congolese non ha catturato negli anni ulteriore sostegno da parte della comunità internazionale. Per attirare l’attenzione sulle violenze nel Paese lo scorso febbraio, durante la semifinale di Coppa d’Africa, la nazionale di calcio del Congo è scesa in campo tappandosi la bocca e mimando una pistola alla tempia. Un gesto ripetuto in Italia alcuni giorni dopo dal calciatore della Roma Romelu Lukaku, nato ad Anversa (Belgio) da genitori congolesi. Una manifestazione in campo a cui ha fatto seguito un appello sui suoi account social: «Free Congo DR – Stop the genocide».
Per la Diocesi di Milano sono presenti due “fidei donum”, don Francesco Barbieri e don Maurizio Canclini. I sacerdoti operano a Kinshasa, la capitale, che riflette le condizioni del Paese: una città di più di 17 milioni di abitanti, dove i servizi essenziali sono assenti. La rete idrica è praticamente inesistente nelle periferie, costringendo le persone ad affidarsi a pozzi che, nella stagione secca, si prosciugano. La città è paralizzata da ingorghi quotidiani, con le strade che si bloccano per ore. L’inquinamento provocato dal traffico rende l’aria irrespirabile e i rifiuti si accumulano a ogni angolo della strada. «Per capire le dimensioni – descrive don Francesco -, Kinshasa è grande più o meno come metà della Lombardia. Qui da noi non c’è un sistema fognario e l’elettricità va e viene. Può capitare ad esempio che alle 18 di sera siamo già al buio. Tra le prime cose che abbiamo realizzato c’è stato il pozzo per l’acqua. Adesso che ce l’abbiamo ogni sera si presenta una fila di persone a chiedercene un po’. Cerchiamo di essere un piccolo seme di speranza per le persone, ma possiamo aiutarne solo 30 su 20 milioni. Ho l’impressione che gli abitanti non abbiano una percezione di un Paese che va migliorando, ma casomai che peggiora. E purtroppo, alle volte, mi trovo concorde: un anno fa quando sono arrivato la corrente saltava meno di adesso. Quello che manca è ancora una prospettiva per la loro vita».
L’articolo completo è pubblicato su “Il Segno” di luglio-agosto