È tempo di cambiare radicalmente il modo di rapportarci al conflitto in Medio Oriente. In questa guerra ci sono due sconfitti: gli israeliani e i palestinesi, per il terribile e inutile bagno di sangue, ma anche perché ancora oggi non si vedono leader che pongano all’ordine del giorno la necessità della pace e di un compromesso territoriale. Ne aggiungerei però un terzo. Siamo noi spettatori che non siamo stati capaci di svolgere un ruolo propositivo di mediazione. Anzi, anche se non ce ne rendiamo conto, abbiamo introdotto nel dibattito pubblico posizioni estreme contrapposte che, se ci trovassimo su un campo di battaglia, ci porterebbero a prendere le armi gli uni contro gli altri.
Oggi, pur nella varietà delle posizioni, ci sono due partiti che fanno un tifo unilaterale per una delle parti in causa contro l’altra. Chi denuncia i massacri di Gaza e si erge a difensore dei diritti dei palestinesi, rimuove i pogrom e gli stupri del 7 ottobre assieme alla sorte degli ostaggi e tace sulle politiche di Hamas, degli Hezbollah e dell’Iran, e persino confonde gli ebrei italiani con gli israeliani. Chi, invece, difende il diritto alla sicurezza di Israele rimuove totalmente la volontà annessionistica della destra israeliana che, in modo speculare ad Hamas, sogna lo Stato ebraico dal Giordano al mare e non si pronuncia sulla catastrofe umanitaria di Gaza.
Non ce ne accorgiamo, ma questa guerra ha effetti negativi su di noi e inquina il nostro modo di pensare. Essere europei significa custodire e diffondere ovunque alcune idee fondamentali: la pace e la non violenza nei rapporti politici, il valore della democrazia e del dialogo, la difesa dei diritti dell’uomo e della sovranità delle nazioni mai a scapito degli altri, il principio della sacralità della vita per ogni essere umano in qualsiasi circostanza si trovi. Ebbene, in questo conflitto questi valori da diffondere sembrano evaporare da un giorno all’altro.
Se fossimo custodi di questi valori, diremmo che lo slogan della liberazione dal Giordano al mare, come quello dello Stato ebraico etnico e messianico, porta soltanto a una guerra permanente; che la non violenza dovrebbe diventare la modalità della resistenza dei palestinesi e che non sono tollerabili né pogrom, né missili, né droni; che una democrazia è monca quando occupa un’altra nazione ed esprime suprematismo a scapito di un altro popolo; che ogni vita ha per noi lo stesso significato e nessuna vale più dell’altra.
Gaza è una Guernica moderna che forse Picasso avrebbe difficoltà a dipingere per la sua duplice tragicità. Genocidio è quando deliberatamente si vuole estirpare una nazione o una parte di una nazione dalla faccia della terra. Nel vocabolario giuridico si parla di dolus specialis quando il criminale agisce con l’intenzione e la volontà di uccidere. In questo caso il termine è improprio, come quello di genocidio. Invece, si dovrebbe usare un altro termine, dolus eventualis, che definisce la responsabilità indiretta che comunque porta al massacro. Se si dà fuoco a una casa dove abitano persone che non hanno via di fuga, si diventa responsabili della loro morte, anche se apparentemente non si manifesta una volontà omicida.
Ecco perché si dovrebbe usare il termine più preciso di “crimini di guerra”, perché l’azione militare degli israeliani contro Hamas ha colpito migliaia di persone innocenti. Ma c’è anche un altro aspetto che viene rimosso. Hamas nella propria strategia militare, con l’idea del martirio, ha considerato sacrificabile la propria popolazione per la causa, costruendo i suoi avamposti tra case, scuole e ospedali. Lo stesso capo di Hamas, Yahya Sinwar, ha dichiarato apertamente che “per vincere” bisogna sacrificare parte della popolazione.
Di fronte a questo orrore a Gaza che mostra le responsabilità dei due protagonisti del conflitto, ci dovrebbe essere una duplice condanna morale. Invece, c’è una visione unilaterale che copre e rimuove gli orrori e i crimini commessi dall’altra parte. Con questa logica di schieramento e di tifoseria, è inevitabile che venga distorta non solo la nostra capacità di giudizio obiettivo, ma anche la consapevolezza stessa di quello che dovrebbe essere il nostro ruolo di pace e mediazione.
In questo conflitto è venuto a mancare quello che, in termini calcistici, il compianto direttore della Gazzetta Candido Cannavò aveva chiamato “tifo positivo”, cioè quando in una partita di calcio non si tifa per la distruzione dell’altra squadra, ma per l’amicizia e il bel gioco. Invece di tifare per i guerrieri che auspicano la vittoria definitiva sul nemico, ci si dovrebbe schierare con coloro che, all’interno dei campi contrapposti, sono capaci di superare la propria appartenenza e che, guardando alla propria comune umanità, sono capaci di creare amicizie politiche e pratiche di pace e di dialogo; persino prodigandosi per salvare coloro che sono dipinti come nemici. Pensiamo agli arabi israeliani come l’autista Youssef Ziadna, che ha salvato trenta israeliani durante il rave Nova del 7 ottobre, o ai medici israeliani che in tutti questi anni hanno continuato a curare i bambini di Gaza, oppure ai palestinesi e israeliani che vivono nel villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam e che cercano di dimostrare da quarant’anni che la convivenza è una possibilità concreta e fattibile.
Sono costoro con le proprie esperienze positive che hanno in mano le chiavi della pace e della conciliazione. Per due motivi. Qualsiasi possibile soluzione al conflitto, che sia la costruzione di due Stati amici e non più contrapposti, di una Federazione israeliano-palestinese o persino di un utopico Paese con una cittadinanza comune, non si può basare su una imposizione militare, ma necessita di un lungo lavoro dal basso che crei le condizioni della fiducia reciproca.
Come ha scritto lo storico Yuval Noah Harari, dalla guerra di indipendenza di Israele, alla Nakba (l’espulsione di 700 mila palestinesi), alla cacciata degli 800 mila ebrei dal mondo arabo negli anni Sessanta, fino alla guerra terribile dei nostri giorni, i due popoli hanno vissuto con narrazioni negative che li hanno portati sempre a immaginare che l’altro potesse soltanto annientare e cacciare e che, dunque, l’unica soluzione possibile fosse la vittoria definitiva sull’altra parte.
Ci vorranno generazioni per superare queste memorie negative, ma l’unica terapia possibile è la costruzione di una narrazione alternativa, basata su esperienze comuni di convivenza e di solidarietà. Saranno queste persone di buona volontà che potranno salvare dalla distruzione i loro rispettivi Paesi, mostrando l’inutilità del sangue versato durante le guerre e che la convivenza rappresenta l’unica soluzione realista. Lo hanno compreso l’israeliano Rami Elhanan e il palestinese Bassam Aramin che dopo la morte delle loro figlie hanno costruito un’amicizia per testimoniare la possibilità di un futuro diverso.
Se vogliamo tifare per queste persone buone, perché non ci impegniamo a farle conoscere nella nostra città e non organizziamo al Giardino dei Giusti di Milano al Monte Stella una grande manifestazione che unisca i sostenitori della pace e della non violenza? Allora finalmente mostreremo la nostra vera anima europea che abbiamo, forse, dimenticato.