Editoria

Comandamenti:  «Diritto» di uccidere?

Come rileggere il Decalogo alla luce delle provocazioni del tempo presente. Anticipiamo alcuni brani del volume di In dialogo di prossima uscita. Occhetta: «È nella coscienza che risuonano queste parole: una grammatica comune al credente e al non-credente»

Chi sono oggi gli “idoli” da cui guardarsi? Che cosa significa “non uccidere” o “non rubare”? Dove va il desiderio di noi contemporanei? Attraverso voci diverse, il volume di prossima uscita in libreria Comandamenti per la libertà. Il Decalogo tra coscienza religiosa e civile (In dialogo, 216 pagine, 17 euro), curato da Gaia De Vecchi e Alberto Mattioli, indaga il modo in cui le antiche parole della tradizione ebraica incidono sulla coscienza individuale e contribuiscono a creare le basi della convivenza umana. Rileggono i Dieci comandamenti alla luce delle provocazioni del tempo presente voci autorevoli come Elena Lea Bartolini, Bruno Bignami, Rosy Bindi, Giacomo Costa, Nando dalla Chiesa, Walter Magnoni, Luciano Moia, Francesco Riccardi, Milena Santerini e Rosanna Virgili.

«Questo volume è come un pozzo profondo – sottolinea nella prefazione il gesuita padre Francesco Occhetta – serve per attingere e ridonare le Dieci Parole, per liberare e responsabilizzare il lettore. Si tratta di una ricerca sincera che colma la sete di verità e relazione antropologica che definisce ogni persona in rapporto a Dio e agli altri. Gli autori rinnovano così una sfida che attraversa i tempi, è antica ma sempre nuova. Serve ritornare alla pratica del dialogo interiore, un esercizio antico, oggi soffocato dai rumori e dalla velocità delle parole deboli scambiate nelle chat. È anzitutto nella coscienza che risuonano le parole del Decalogo, che rappresentano una grammatica comune al credente e al non-credente».

Anticipiamo alcuni brani dei capitoli curati da Nando dalla Chiesa.

Nando dalla Chiesa

Quando mi è stato proposto di scrivere di questo comandamento ho immaginato quale ne fosse la ragione. Una vicenda personale, familiare, anche se assolutamente pubblica, come la mia, che aveva visto un “giusto” ucciso con plateale tracotanza fra altri giusti, mentre rappresentava un potere legittimo in lotta con “un potere di fatto” (un potere criminale) più forte. Un giusto sacrificato perché il precetto “non uccidere” era stato fiaccato, corroso nel tempo proprio da chi lo avrebbe dovuto proteggere e fortificare. E, certo, l’esperienza personale molto mi ha insegnato a proposito delle ragioni che portano a uccidere, a lasciare che si uccida, a difendere chi ha ucciso, a trasferire la colpa su chi è stato ucciso e, infine, a dimenticare l’uccisione. O a banalizzarla.

Non lo nego. Molto di questo ho imparato e molto ho cercato di metterne nei libri che ho scritto, nei discorsi che ho tenuto nelle università e nelle scuole. Proprio grazie a questo “molto” ho potuto capire (spero) il senso profondo del grido e della macerata sofferenza di Primo Levi. E perciò mi è giunta come balsamo ogni parola di quell’udienza di papa Francesco a cui mi sono riferito in apertura (Catechesi sui Comandamenti, Udienza gene#rale 17 ottobre 2018).

Ma la ragione più istintiva che mi ha portato ad accettare la proposta va cercata nel decennio successivo. E non riguarda le stragi di mafia di allora. Riguarda, invece, proprio la guerra della porta accanto, i conflitti balcanici.

Ero vissuto fino allora con l’idea che l’Europa avesse finalmente conosciuto, con la fine della Seconda guerra mondiale, il desiderio insopprimibile e senza ritorno della pace. Ero convinto che forse l’umanità no, ma l’Europa sì che non avrebbe mai più conosciuto i massacri e meno ancora il genocidio; credevo che fosse stata vaccinata per sempre. Perché la memoria affina il senso della storia, alza le difese culturali e certi orrori non possono tornare. Invece la guerra c’è stata, con i suoi massacri, e il genocidio pure, benché di dimensioni certo assai minori del precedente.

Ecco, quando questo accadde io non ero un giovane sprovveduto e dai valori incerti. Ero parlamentare e proprio il mio personale “non uccidere” mi ci aveva portato, con l’idea di restituire a quel comandamento una sacralità che gli avevo visto sfregiata davanti a un Paese intero. Ero quarantenne istruito, professore universitario, esperto delle ingiustizie della vita e motivato a combatterle. Eppure, esattamente come quel Parlamento nella sua quasi totalità (fecero eccezione Emma Bonino e pochissimi altri), fui incapace di passare dal mio “non uccidere” a quello che toccava decine di migliaia di esseri umani che vivevano la tragedia ad alcune decine di chilometri di distanza.

Monsignor Tonino Bello sfidò la sua malattia per andare sul posto a testimoniare. Io e noi militanti dell’antimafia no. Forse ci sembrò troppo assumerci anche quella nuova dimensione di morte in mezzo alle stragi di mafia. Credo, anzi, che fu davvero così. Il fatto, però, è che non innalzai con la consapevolezza e l’energia necessaria (o semplicemente giusta) il comandamento supremo verso chi avrebbe potuto sentirlo e contribuire a rilanciarlo. In fondo, i “caschi blu” che lasciarono uccidere e perpetrare il genocidio furono specchio di un’opinione pubblica internazionale balbettante. Di cui feci parte.

Ecco, credo che questa confessione libera e consapevole fosse il contributo maggiore che potessi dare alla nostra discussione. Perché la storia del coltello di Sopatro (chi ha davvero inferto il colpo al bue?) è davvero una metafora della storia delle ingiustizie umane. Che sono sempre il punto di arrivo delle nostre omissioni. Come disse appunto papa Francesco quel 17 ottobre del 2018: «Nessuno si può illudere pensando: “Sono a posto perché non faccio niente di male”. Un minerale o una pianta hanno questo tipo di esistenza, invece un uomo no. Una persona – un uomo o una donna – no. A un uomo o a una donna è richiesto di più. C’è del bene da fare, preparato per ognuno di noi, ciascuno il suo, che ci rende noi stessi fino in fondo».          

Articolo tratto dal n. 11 (Novembre 2021) de il Segno