Opinione

Lo spazio delle donne in una Chiesa meno “occidentale”

Il frutto più importante del Sinodo universale è stato la comprensione delle diversità che abitano il mondo cattolico. E che il nostro modo di pensare non è affatto il più interessante. Pubblichiamo la riflessione integrale padre Giacomo Costa, segretario generale che ha partecipato alla XVI Assemblea dei Vescovi
Foto Vatican Media/Sir

Forse è troppo presto per avere una visione di insieme approfondita su cosa abbia rappresentato, per la Chiesa universale la XVI Assemblea generale ordinaria dei Vescovi, prima sessione del Sinodo universale sulla sinodalità che si è conclusa il 29 ottobre scorso. Come Segretario speciale dell’assise, posso però dare voce a quanto io personalmente e tutti noi delegati abbiamo sperimentato e toccato con mano nei 25 giorni di lavori. A partire dal clima di preghiera, davvero guidato dallo Spirito che si è respirato e dallo stile dell’ascolto. Un ascolto tutt’altro che scontato, se teniamo conto che tra i tavoli sedevano russi, ucraini, palestinesi, persone che vivono in Terra Santa e in tante altre terre segnate da conflitti. In questo contesto, pregare insieme non è stato un optional per iniziare la mattinata, ma è stato fondamentale, perché così siamo cresciuti come comunità. Mai, nella mia esperienza, ma neanche in precedenza, vi è stato un Sinodo che integrasse fino a questo punto la preghiera nel suo programma.

Pur nel rispetto delle istruzioni pontificie sul Sinodo, tanti sono stati gli aspetti di novità che insieme al clima di preghiera hanno caratterizzato questa Assemblea sinodale, soprattutto a livello di metodo, che ha cercato di incoraggiare non un dibattito in stile parlamentare, ma lo sviluppo di una conversazione tra i partecipanti. Anzi, più propriamente una “conversazione nello Spirito”. Spirito che, come papa Francesco ha sottolineato nella sessione di apertura, è il vero protagonista dell’assise. Questo metodo offre a ogni partecipante l’opportunità di esprimersi e comunicare il proprio punto di vista, dopo essersi preparato con la riflessione e la preghiera personale, mentre agli altri è chiesto di ascoltare, senza interrompere, intervenire, commentare o entrare in polemica. Si procede poi a un lavoro di identificazione dei passi da compiere per realizzare insieme quello che insieme si è messo a fuoco.

Non è facile per nessuno entrare in un clima di ascolto così profondo, e non lo è stato neppure per i partecipanti. Voglio sottolineare la scelta felice e assolutamente inedita di chiedere aiuto, per la prima volta nei Sinodi, ai “facilitatori” – laici, laiche, consacrati, sacerdoti, con due ambrosiani, don Mario Antonelli ed Erica Tossani -, che si sono seduti ai tavoli e hanno accompagnato con competenza il metodo di lavoro senza intervenire sui contenuti. Ben 35 facilitatori per altrettanti tavoli: è stato un grande investimento umano che ha rivelato tutta la sua utilità. Il frutto del lavoro dei piccoli gruppi, per ciascun argomento, è stato poi riportato e discusso in Assemblea, alternando momenti di approfondimento tra poche persone e altri in cui si è sperimentata l’universalità e la cattolicità della Chiesa.

All’inizio, si parlava solo di conflitti e si diceva che il Sinodo avrebbe potuto essere un tentativo di distruzione della Chiesa, eppure non abbiamo assistito a niente di tutto questo, anzi l’assise è stata contraddistinta da una serenità maggiore che in altri Sinodi.

Tra i frutti, il passo in avanti più grande è stato l’istaurarsi della fiducia reciproca nel mettere a tema interrogativi e comprendere più a fondo le diversità che abitano la Chiesa, insieme a rinnovare il desiderio di unità. Forse, per la prima volta, si è sperimentato in maniera concreta che la prospettiva occidentale non è esaustiva e nemmeno la più interessante e che se da noi le chiese si svuotano non è così in altre parti del mondo. Per secoli abbiamo portato, e a volte imposto, il nostro modo di pensare occidentale, la nostra razionalità filosofica e teologica come se fosse universale, ma è chiaro che così non è. Analogamente per le Chiese locali è emerso il desiderio di trovare un modo nuovo di esercizio dell’autorità nella Chiesa e sulla trasparenza, non solo relativa alla gestione economica e rispetto agli abusi, ma nell’azione quotidiana, nella valorizzazione delle diverse vocazioni, dei doni di ciascuno, dei servizi che si è chiamati a compiere.

È chiaro che questo incide sulle prospettive pastorali e sullo stile della leadership, a partire dai vertici per poi scendere a cascata nelle comunità e nelle parrocchie. Questo incide anche sul desiderio di dare un vero spazio alle donne all’interno della vita e della missione della Chiesa, anche nei processi decisionali. Il Sinodo ha evidenziato come il problema sia proprio non rendere le donne “un problema da risolvere”, rendendoci tutti conto che sono un dono e parte viva della Chiesa perché la missione è portata avanti in grandissima parte da loro. È stata sul tavolo anche la questione dell’accesso al diaconato delle donne, su cui si sono richiesti ulteriori approfondimenti.

In questa prospettiva si può cogliere il senso complessivo della Relazione di sintesi, fatta di spunti per intraprendere passi concreti con i suoi 20 temi divisi in 3 blocchi: “Il volto della Chiesa sinodale”, sui punti chiave dell’esperienza sinodale; “Tutti discepoli, tutti missionari”, un ambito fondamentale per ripensare i nostri organismi in funzione della missione; “Tessere legami, costruire comunità”, in cui si raccomanda molto a livello diocesano una formazione integrale, fatta da tutti i membri del Popolo di Dio insieme, laici e laiche, consacrati e consacrate, e sacerdoti. Segnalo inoltre la scheda 17, “Missionari nell’ambiente digitale” che pochi hanno evidenziato, ma che affronta una questione che sta cambiando le nostre vite e mette in gioco il nostro percepirci come comunità.

La Relazione di sintesi, disponibile sul sito del Sinodo (www.synod.va), può essere letta per conoscere tutti i temi affrontati, ricordo però che questa assemblea è stata solo una tappa. Il Sinodo è stato esso stesso una testimonianza e un segno di speranza, dimostrando come in un tempo di guerre, conflitti e contrapposizioni violente, persone provenienti da ogni Paese del mondo possano sedersi attorno a un tavolo senza cedere a continue affermazioni delle proprie verità indiscutibili e facendo finalmente tacere gli eccessi dell’io per fare concreti passi verso un “noi” ricco del contributo di ciascuno.

* Gesuita, Segretario generale del Sinodo dei Vescovi e vice presidente della Fondazione Carlo Maria Martini

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