Disagio

Martina ha chiuso fuori il mondo

Il ritorno a scuola vissuto come un incubo, la propria camera vista come l’unico rifugio sicuro. Un disturbo avvertito da molti adolescenti, ma che questa ragazza ha subìto in forme estreme, tanto da richiedere un supporto psichiatrico. Tra timori e speranze, la sua famiglia le è vicina con amore

Trascorre la maggior parte delle giornate a letto, con le coperte rimboccate fin sopra gli occhi e le tapparelle abbassate, come se anche la luce fosse un nemico da cui guardarsi. Mangia poco o niente e l’inappetenza si manifesta visibilmente nel suo aspetto e nel suo fisico. Non legge, non ascolta musica, non guarda la tv: nulla sembra poter catturare la sua attenzione e il suo interesse, nemmeno il cane di casa, con cui invece “prima” giocava abitualmente. Non va a scuola: da settembre a oggi ha accumulato oltre una sessantina di giorni di assenza, con il rischio concreto di perdere l’anno. E giunge a compiere atti di autolesionismo.

L’uscita dal secondo lockdown, con la fine delle lezioni a distanza e la ripresa di quelle in presenza, in compagnia di insegnanti e compagni, ha rappresentato per la maggior parte dei ragazzi un ritorno alla normalità didattica e relazionale. Per molti, però, non è stato così, perché il rientro a scuola, invece che a ritrovare abitudini consolidate, è equivalso ad addentrarsi in una realtà apparsa improvvisamente sconosciuta e addirittura ostile. A Martina è capitato proprio questo. Prima della pandemia era una quattordicenne solare, che viveva serenamente con i genitori e due fratelli più piccoli in una località dell’hinterland milanese. Frequentava da poco la scuola superiore, animata dall’aspirazione di imparare, crescere e formarsi. Aveva le sue amicizie, le sue frequentazioni, i suoi passatempi. Come ogni adolescente.

Poi arriva il virus. Un primo lockdown, seguito da un secondo. Ci si chiude tra le pareti domestiche. Per alcune settimane non è consentito incontrare parenti e amici. A scuola le lezioni in presenza vengono sospese e sostituite dalla Dad. A casa di Martina la dotazione tecnologica non è ottimale, dapprima lei ne risente. Ma tutto si aggiusta, la ragazza si adegua alle nuove metodologie e ne trae giovamento, arrivando al termine dell’anno scolastico con profitto e buoni voti. E quella situazione “eccezionale” si trasforma per lei in una rassicurante ordinarietà.

La prima “spia” è durante l’estate, quando, incontrando altre persone, inizia a manifestare inquietudine, che ben presto si trasforma in vera e propria paura. La scuola canalizza questi sentimenti. Non è questione di svogliatezza: Martina ha letteralmente terrore di andarci, si rifiuta. Le assenze si sommano e purtroppo la Dad individuale non è ammessa nel suo istituto, se non per casi accertati di Covid. Poi la paura si allarga a tutto il mondo esterno: Martina non vuole più uscire di casa. Nell’abitazione – o meglio, nella sua camera – vede un rifugio, l’unico in cui può trovare riparo e protezione. La mamma cerca di stimolarla, la invita a effettuare qualche camminata insieme a lei. Ma tutto ciò che ottiene è l’assenso a fare quattro passi in serata, quando le strade sono deserte e la prospettiva di incrociare qualcuno è ridotta, a condizione di cambiare itinerario se si incontra altra gente. Parallelamente emergono i disturbi alimentari: Martina mangia sempre meno, e con sempre minore appetito. E arriva il giorno in cui, con grande agitazione, la mamma scopre che si è inferta alcuni tagli. Da quel momento comprende di doverla controllare a vista.

Così i genitori, alla ricerca di un aiuto, decidono di rivolgersi a uno psicoterapeuta. Con lui Martina inizia un percorso fatto di alti (pochi) e bassi (molti). A destare preoccupazione, soprattutto, è l’apparente mancanza di volontà a ripartire. «Perché ti ostini a cercare di aggiustare tutto? – dice una volta alla madre -. Lasciami stare così…». Altre volte, invece, trasmette segnali diversi: «Non voglio più andare a scuola, appena compirò 16 anni voglio andare a lavorare…». Senza considerare che deve completare il ciclo dell’obbligo e che comunque, nelle condizioni in cui si trova ora, anche l’impegno lavorativo per lei sarebbe insostenibile. Davanti a queste contraddizioni, gli stessi familiari non sanno come porsi nei suoi confronti. Un gesto semplice come una carezza o un abbraccio a volte viene accettato e quasi ricercato, altre rifiutato e respinto come sgradito. Dato che anche l’assistenza psicoterapeutica non si rivela efficace a risvegliare Martina dal suo torpore, i genitori decidono di procedere a un livello più alto: dalla fine di gennaio la ragazza è in cura presso un neuropsichiatra. «Nel suo stato un semplice sostegno psicologico non è sufficiente, occorre un supporto farmacologico…», è la motivazione.

Un’ulteriore fonte di timore è costituita dalla volontà di Martina di provare lo shifting: un’esperienza di meditazione diffusasi attraverso TikTok, che consentirebbe di trasferire la coscienza dalla realtà a una sorta di mondo “parallelo”, nel quale poter dare libero sfogo alle proprie turbative senza per questo procurarsi dei danni. Una pratica da cui, comprensibilmente, i genitori vorrebbero tenere Martina lontana, temendo eventuali effetti distorti; ma non hanno la certezza che la ragazza non possa farvi ricorso in autonomia, proprio grazie a quanto circola attraverso i social media. La speranza, invece, nasce dai biglietti che Martina, da qualche tempo, appende per casa. Sono messaggi di autoconvincimento, spinte a credere in se stessa: «Ehi, provaci», «Stai facendo un ottimo lavoro». In uno ha scritto «Sei stata brava», perché da 25 giorni resisteva alla tentazione di ferirsi.

È una sorta di “guerra”, quella che si sta combattendo in casa di Martina. La sua famiglia ha un’arma a disposizione: l’amore. E ha tutta l’intenzione di usarla fino in fondo.

Articolo tratto dal n. 2 (Febbraio 2022) de il Segno