Continua il dibattito politico sugli interventi in mare delle Ong, Il Segno di febbraio dedica l’Opinione a questo tema di grande attualità da cui emerge che manca ancora una strategia adeguata
Come da manuale, il primo atto del governo Meloni, nel 2023, è consistito nell’emanazione di un decreto legge contenente «Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori». Evidentemente si fa fatica a parlare di casualità nel momento in cui l’attuale esecutivo, storicamente non molto incline ai temi dell’immigrazione, ha scelto di aprire il nuovo anno con una norma decisamente discutibile, che si presenta più come un atto politico di indirizzo, volto innanzitutto a contrastare l’operato delle Ong, che non di governo delle migrazioni. Ad onor del vero, il testo del decreto va in assoluta continuità con quello del governo precedente (decreto Lamorgese), a testimonianza del fatto che negli ultimi anni non si è assistito a quella discontinuità politica che in molti avremmo auspicato. Infatti, tutti i governi che si sono succeduti dal 2015 a oggi si sono distinti per una produzione normativa ispirata a un approccio per lo più securitario, volto principalmente a contrastare l’immigrazione, peraltro attraverso scelte a dir poco criticabili – per usare un eufemismo – che vanno dalla stipula di accordi con la Libia alla formulazione di codici di condotta per le Ong impegnate nei salvataggi in mare. Nessuna forza politica, che fosse di destra o di sinistra, ha mancato di varare negli ultimi anni un decreto sicurezza.
Poco o nulla, invece, è stato fatto sul resto, pur nella consapevolezza che ci sono dossier aperti di straordinaria importanza, sui quali i partiti si riempiono la bocca in campagna elettorale, ma che poi rimangono nei cassetti. È il caso della modifica della legge sulla cittadinanza che ci stiamo trascinando da oltre due decenni, senza che nessuno trovi il coraggio di votarla per restituire dignità a migliaia di giovani nati in Italia da genitori stranieri. In alcuni casi abbiamo assistito a un vero e proprio paradosso, come nel corso dell’ultima tornata elettorale dove la coalizione di maggioranza giallorossa, che avrebbe avuto modo e tempo di votare in Parlamento il relativo disegno di legge, non solo ha fatto scadere i termini per procedere in tal senso, ma in campagna elettorale ha rilanciato, promettendo di approvare la norma se la coalizione fosse uscita vincitrice dalle urne.
Chiaramente il tema dei migranti è da considerarsi tra quelli più ostici e divisivi, potenzialmente in grado di spaccare l’opinione pubblica e la politica, ma nei fatti vede allineate tutte le forze politiche nell’incapacità di dare un indirizzo preciso alla gestione del fenomeno, come si rileva, d’altronde, dalla lettura dei vari programmi elettorali. L’attuale partito di maggioranza ne ha presentato uno molto esplicito, già dal titolo: «Difendiamo l’Italia». Il messaggio è quello di mostrare un Paese sotto attacco, che necessita di essere difeso da minacce esterne, in primis l’immigrazione che, al punto 21 del programma, viene presentata col titolo «Fermare l’immigrazione illegale e restituire sicurezza ai cittadini». L’equazione immigrazione-sicurezza, dunque, diventa l’elemento qualificante dell’azione di governo, come esplicitato chiaramente nel passaggio in cui si sottolinea l’importanza della «difesa dei confini nazionali ed europei, con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi e creazione di hot-spot nei territori extra-europei, nonché contrasto alle attività delle Ong che favoriscono l’immigrazione clandestina».
Oltre ad affermare questi principi, che sembrano costituire la stella polare dell’azione di governo, il programma del centrodestra richiama anche l’importanza dello strumento dei decreti flussi in un’ottica di cooperazione internazionale e gestione degli ingressi regolari in Italia. Al di là della genericità di tale previsione, va riconosciuta la menzione che viene fatta di quello che potremmo definire il tema cardine delle politiche migratorie per una gestione regolare e ordinata dei flussi, ovvero il sistema delle quote per l’ingresso di lavoratori stranieri che, per l’anno 2023, sono state fissate a circa 83 mila. Questione che non ritroviamo, invece, nel programma elettorale del Pd che al riguardo fa solo un generico passaggio circa la creazione di una non meglio precisata «Agenzia di Coordinamento delle politiche migratorie che dovrebbe occuparsi di tutti gli aspetti del fenomeno, coinvolgendo tutti gli attori istituzionali e non, attivi su questi temi».
Certamente la sottolineatura dell’attuale partito di maggioranza sul tema delle quote d’ingresso ha più un valore propagandistico che non di prospettiva e ciò è confermato dal fatto che chi intenderà assumere dall’estero un cittadino non comunitario, dovrà in primo luogo verificare presso il centro per l’impiego competente la mancata disponibilità a ricoprire il ruolo richiesto da parte di altri lavoratori già presenti sul territorio nazionale. Non è difficile comprendere che si tratta di un tentativo maldestro di mascherare, in ottica protezionistica, la volontà di ridurre al minimo l’ingresso di nuovi migranti, attingendo prioritariamente al mercato del lavoro interno e sdoganando definitivamente l’elemento della cosiddetta “preferenza nazionale”, vecchio cavallo di battaglia che ritroviamo nel nostro sistema già agli inizi degli anni ’60.
È chiaro come nessuna forza politica di questo Paese abbia una strategia di lungo periodo e sostenibile sul tema dei migranti e dei rifugiati, con l’inevitabile conseguenza che ogni governo che si è succeduto nell’ultimo ventennio ha affrontato il tema in maniera confusiva, partendo sempre dall’elemento emergenziale collegato agli sbarchi e rimanendo poi inattivo su tutto il resto. Circa l’attuale esecutivo è difficile dare un giudizio a pochi mesi dal suo insediamento, ma le premesse confermano le preoccupazioni della vigilia. Non sarà certo questa la stagione delle necessarie riforme in materia di immigrazione e asilo.
* Oliviero Forti è il responsabile, Politiche migratorie e protezione internazionale della Caritas italiana