Ci sono probabilmente due specie di giornali proprio come, secondo Italo Calvino, ci sono due specie di città: «quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati» (Le città invisibili, Zenobia). Continuare, insomma, non è solo prolungare il passato, ma accendere l’immaginazione sul futuro, pregustarlo e, intanto, andargli incontro.
Mi piacerebbe che Il Segno “continuasse” proprio così: allungando lo sguardo sul mondo che si profila all’orizzonte, interrogandosi sul tempo che stiamo vivendo, intercettando i segni di un volto nuovo del cristianesimo che già si affaccia nel presente.
L’alternativa, non solo per questo giornale ma per ciascuno di noi, è rientrare in una delle altre due categorie: quella di chi custodisce nel cuore ricordi gloriosi mentre le chiese diventano sempre più vuote o quella di chi porta il vuoto nel cuore mentre le mode del giorno lo trascinano via.
Gli eventi drammatici di queste settimane ci mostrano una volta di più che una terra invasa o contesa o abbandonata per forza è metafora esatta della perdita di umanità. Per questo abbiamo bisogno di spazi da condividere, di luoghi in cui incontrarci, di piazze nelle quali raccontare quello che siamo e quello che vorremmo essere.
Anche Il Segno si offre così, come uno spazio sempre più ospitale dove ciascuno senta di poter prendere la parola, di trovare interlocutori, di fare insieme il tentativo di dar forma ai desideri e carne alla città invisibile che ci unisce.
Il libro di Calvino termina con un paragrafo giustamente famoso in cui dice che le nostre città a volte però somigliano a un inferno perché stare insieme può anche essere una tortura. Poi aggiunge che «due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Purtroppo non mancano i motivi per ricordarci quotidianamente l’inferno nel quale ci troviamo e quello, sempre un po’ peggiore, nel quale presto ci troveremo: la pandemia, la guerra, l’inquinamento, il disagio giovanile, le iniquità sociali, la crisi demografica… Forse anche noi, prima ancora di terminare l’elenco, ci chiediamo: “Dio non abita più qui?”. E il pensiero non corre tanto al destino di quelle chiese che, per ragioni contingenti, restano chiuse o non frequentate: sono solo il simbolo di una solitudine più grave, di un colpo più duro inferto alla nostra speranza.
Per questo mi auguro che Il Segno, di mese in mese, porti tra noi parole diverse e la sicura certezza che “Dio abita ancora qui”. Come una voce che ripete: non temete, non tutto è inferno, Dio abita ancora qui. Qui: nelle nostre famiglie, nelle nostre piazze, nella nostra diocesi. «Questo per voi il segno».
Vorrei infine ringraziare don Giuseppe Grampa per i tanti anni in cui ha diretto Il Segno e per la cordiale benevolenza con cui mi ha passato il testimone. Ha scritto di essere stato felice nello svolgere questo lavoro: la felicità gliel’ho letta negli occhi e anche di questo lo ringrazio.