Contro la logica dello scarto e dello spreco una strada concreta è rappresentata dall’economia circolare e dalla bioeconomia. Ne parliamo con Davide Maggi, professore ordinario di Economia aziendale presso il Dipartimento di studi per l’economia e l’impresa dell’Università del Piemonte Orientale e componente del Comitato esperti dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana.
Quali sono gli obiettivi dell’economia circolare?
L’economia circolare si propone di superare l’attuale modello estrattivo industriale “prendi, produci e dismetti”, con un modello economico e sociale dove i materiali e il loro relativo valore vengono mantenuti il più a lungo possibile all’interno di un circuito virtuoso di produzione, utilizzo, recupero per garantire una maggiore efficienza nell’uso delle risorse e una riduzione del consumo di natura e dell’inquinamento. Concretamente l’economia circolare è un insieme di metodologie applicate ai processi produttivi – dalla progettazione iniziale al ciclo di vita, allo smaltimento finale dei prodotti – finalizzate alla riduzione dei rifiuti e degli scarti, alla massimizzazione del valore d’uso della materia, all’allungamento della vita del prodotto.
In quali aree si applica?
Secondo il Piano europeo per l’economia circolare sono cinque i principali settori di intervento: produzione, consumo, gestione dei rifiuti, materie prime e seconde, innovazione e investimenti e coinvolge tutti gli ambiti d’impresa. La bioeconomia è quella componente dell’economia circolare che si fonda sull’utilizzo di risorse biologiche, provenienti dalla terra e dal mare, per la produzione energetica, industriale, alimentare.
L’economia circolare si associa anche alla sostenibilità?
Sì, l’economia circolare è una risposta positiva e proattiva per ridurre il consumo di risorse naturali e l’inquinamento se persegue i principi e gli obiettivi della sostenibilità, che richiedono di mettere al centro non solo l’impatto ambientale, ma anche il rapporto con le persone. E di promuovere una visione unitaria dei sistemi di produzione e di consumo nella prospettiva della dematerializzazione di beni e servizi e di una progressiva riduzione dei consumi materiali.
Eppure in Italia esistono diversi fattori che ostacolano la diffusione dell’economia circolare…
Esatto. Sono almeno tre gli aspetti critici che rallentano, e in alcuni casi ostacolano, lo sviluppo di un’economia circolare nel nostro Paese. Un primo aspetto è di carattere culturale. Manca a livello imprenditoriale, politico, amministrativo e, più in generale, della società nel suo insieme una conoscenza di che cos’è l’economia circolare. A livello di Rete il temine è noto (se si prova a mettere “economia+circolare” sul motore di ricerca Google appariranno circa 95 mila risultati), soprattutto se si considera che questo concetto è diventato popolare solo di recente. Andando un po’ più a fondo, tuttavia, si scopre che dalla maggior parte delle persone viene collegata solo al riciclo, che rappresenta una delle componenti. In realtà l’economia circolare è costituita da numerosi elementi e vari modelli di business (quali, per esempio, l’estensione del ciclo di vita del prodotto, i fornitori “circolari”, il prodotto come servizio) che possono aumentare di molto la sua potenza gestionale raggiungendo obiettivi più ambiziosi rispetto a quello, seppur importante, del solo riciclo.
Anche a livello legislativo la strada è ancora lunga…
Infatti, un secondo nodo critico è rappresentato dalla legislazione vigente, spesso definita dagli operatori economici come inadeguata e contraddittoria e che non riconosce e supporta, anche con adeguati strumenti economici, lo sviluppo dell’innovazione di processo e di prodotti verso la circolarità.
E la terza criticità?
È rappresentata dalla forte frammentazione istituzionale e di territorio che ostacola la creazione e lo sviluppo di filiere gestionali e produttive (per esempio in materia di rifiuti). Il tema della governance di processi complessi richiede un approccio organizzativo anch’esso circolare (istituzioni, imprese, comunità scientifica e territoriale). Questo approccio, necessariamente, richiede capacità manageriali ai diversi livelli istituzionali che, anche in altri ambiti (per esempio, in ambito sanitario, la recente pandemia e alla sua gestione), vede situazioni slegate e a volte incoerenti nelle scelte operate.
Allora come bisogna intervenire per sbloccare la situazione?
Innanzitutto è necessaria una forte azione informativa e formativa a tutti i livelli, la definizione di un quadro normativo chiaro, un rafforzamento della collaborazione fra le istituzioni e tra gli attori dell’economia circolare (pubblica amministrazione, imprese, università e istituti di ricerca). Ecco alcune proposte. A partire dal livello normativo agevolare, anche con provvedimenti normativi, l’aggregazione tra piccoli Comuni nella gestione dei rifiuti; introdurre il concetto di rifiuto come materia; definire standard ed etichette di qualità per i prodotti dell’economia circolare; riconoscere il diritto alla riparabilità di un bene.
Economia circolare vuol dire anche posti di lavoro…
Certo. A livello di politiche attive occorre sostenere le opportunità occupazionali dell’economia circolare che è ad alta intensità di lavoro; formare il management; ampliare la collaborazione per la creazione di un “ecosistema circolare” di territorio.
I cittadini possono dare un contributo?
Assolutamente. Occorre promuovere il coinvolgimento attivo delle persone e delle comunità al consumo responsabile, nella duplice direzione dell’eco-efficienza e dell’eco-sufficienza.