Nato nel 1988, Jasminko Halilović ha trascorso la sua infanzia a Sarajevo durante la guerra. A partire dal 2010, tramite internet, ha cominciato a chiedere ai suoi coetanei di raccontare in una o due frasi cosa avesse voluto dire per loro crescere nella città sotto assedio. Più di mille risposte sono confluite in un libro, Infanzia in guerra, che rappresenta un’importante testimonianza dell’esperienza dei bambini in un contesto di guerra. Alla Bosnia-Erzegovina dedicheremo ampio spazio nel prossimo numero, a trent’anni esatti dagli accordi di Dayton, anche per ricordare la gara di solidarietà che coinvolse la nostra Diocesi e i legami profondi che da allora sono rimasti.
Tuttavia, leggendo oggi il libro di Halilović è inevitabile pensare ai bambini di Gaza e di tanti altri luoghi segnati dai conflitti. L’infanzia, afferma Dalida, nata nel 1980, «la perdi quando impari a riconoscere il calibro delle granate e dei fucili». Per tanti ragazzini le schegge di quelle stesse granate diventano tesori da collezionare e da scambiare al posto delle figurine. Si gioca con nulla. Nejra (1985) annota: «La cantina era il mio piccolo mondo. Ricordo le Barbie senza braccia e senza gambe come se condividessero lo stesso destino delle persone». Appena più grande, Mersiha (1980) dice con orgoglio: «A quattordici anni facevo l’infermiera per i pompieri, li aiutavo, medicavo i feriti e lavavo le bende perché non ce n’erano mai abbastanza».
Tra i ricordi, tornano con insistenza quelli legati alla fame. Per esempio, Aida (1981) scrive: «Ho trascorso giorni e notti a guardare mia mamma piangere. Piangeva perché non aveva cibo da darmi». Un quadratino di cioccolato è il sogno di tutti, citato quasi a ogni pagina. Poi ci sono storie tragicomiche, come quando alcuni trovano scaglie di sapone e le mangiano avidamente credendole caramelle. Dijana (1988) racconta: «Una volta mio padre portò a casa delle banane. Mio fratello le scambiò per patate. Mia mamma si mise a piangere».
Accanto alla paura e alle sofferenze, c’è una grande sete di vita, il desiderio di uscire, di avere degli amici, di scoprire i primi amori. Persino quello di andare a scuola, come giustamente suggerisce Diegoli nella sua rubrica “Fuoriclasse”. «È la guerra quando tua mamma non sa che stai andando a scuola», confida Nasiha (1977) che per raggiungere l’aula doveva schivare i cecchini.
Tra le molte voci che rimangono impresse e commuovono, vorrei ricordarne ancora due, forse meno legate a episodi concreti, ma che ci inchiodano alla nostra attualità. Esad (1979) chiede: «Mi domando a chi il mio nome e le mie origini abbiano fatto così tanto male da voler spargere il mio sangue sull’asfalto». E Aldijana (1984) aggiunge: «Durante i periodi di pace, vogliamo molte cose. Durante la guerra, volevamo solo la pace».