Covid-19 parla al femminile. Non perché la statistica dica che le donne si ammalano o ne muoiano di più: al contrario il prezzo più alto lo pagano i maschi. Ragionare sul divario di genere anche in questa prospettiva è strategico. Ma nelle dinamiche della pandemia – a volerla cogliere – c’è un’altra lezione sul femminile: e non è cosa da virologi. Tocca noi tutti.
A intermittenza, per due anni, le restrizioni da pandemia ci hanno fatto ridurre l’acquisto di abbigliamento, diminuire l’uso di cosmetici e trattamenti, rinunciare a ristoranti, spettacoli, aperitivo, palestra, discoteca e viaggi. Quanto ci è mancato, il consumo di questi beni: ma la nostra sopravvivenza non ne è stata compromessa. Quanto grande il danno economico per coloro che li producono e ne traggono reddito: da cui dovremo riprenderci, ma disegnando nuovi equilibri, anche in termini di sostenibilità. Ma il deserto ci avrebbe inghiottito se ci fossero venute a mancare presenza, energia e competenze di operatrici sanitarie, infermiere, asa, oss, educatrici, insegnanti, psicologhe…, e anche cassiere, colf e badanti: professionalità da declinare al femminile, il genere prevalente nei servizi alle persone, campo che vede il maschile come complementare.
Quanto vale il lavoro di chi regge in casa e fuori le esistenze vulnerabili di persone malate, anziane, con disabilità? O accompagna quelle sane e in crescita? Abbiamo ancora negli occhi l’angoscia negli ospedali, la tragedia nelle residenze protette, nelle comunità dove la materia prima che assicura la vita è la cura: quella che gli operatori decimati dal virus nelle fasi acute non riuscivano ad assicurare, per cui abbiamo chiamato in soccorso anche chi era in pensione, o si era appena diplomato, o veniva da lontano. E con uguale senso della necessità ci si è inventati come mantenere il filo della didattica, dei percorsi educativi, la trama dei saperi e dei significati per tenere connessi i più giovani – o i più fragili – con gli adulti di riferimento e con i loro pari. Di questa risorsa, davvero, non avremmo potuto fare a meno, per sopravvivere. Quanto vale la fatica mai finita delle mamme, che a casa in smart-working – o a casa e basta, e troppo spesso senza possibilità di ritorno all’occupazione – hanno retto in privato il peso del lockdown, con una capacità di tenuta cui nessun applauso da balcone ha reso merito?
Si affaccia chiara in Occidente una verità, e sta a noi riconoscerla: per stare bene non ci servono “più cose”, ma “più persone”. Più legami, energie, competenze a servizio di bisogni già evidenti prima della pandemia e oggi più scoperti. Nessun servizio si improvvisa: occorrono attitudine e formazione. Di valore inestimabile: perché i soldi da sé non garantiscono quell’infinita produzione di cura che nel mondo è prestata dalle donne (e dagli uomini) impegnati nei servizi alle persone. Le donne (e gli uomini) che producono vita: e lo fanno nel quotidiano senza contratti. O se ce l’hanno, un contratto – perché di un servizio hanno fatto il loro lavoro – è imparagonabile a quelli di calciatori, star, designer, manager, stilisti, finanzieri, politici… pagati purché producano cose, immagine, consenso: e comunque dividendi. Eppure sono le donne (e gli uomini) della cura quelle/i che ci servono. Ma è ora di smetterla – e per sempre – di pensarli come serve/i, ovvero – letteralmente – «persone in inferiorità di status le cui prestazioni – dovute – non prevedono corrispettivo e tutela»; e le cui competenze non hanno rilevanza.
Perciò i loro percorsi di formazione, la retribuzione, la sicurezza occupazionale e la carriera non devono essere sottovalutati, come i numeri dimostrano. E come le donne che scelgono professioni di cura sanno; eppure lo accettano, disponibili – come tutte le donne da sempre – a possedere meno, se questo consente la libertà di amare e lasciarsi amare di più. È questo sguardo femminile quello autenticamente umano: perché nel valore di scambio calcola il valore della relazione, fattore che più del denaro determina la qualità della vita.
Eppure le occupazioni nell’ambito dei servizi alle persone sono le prime a cui si è rinunciato in pandemia (ne hanno fatto le spese tanti enti del Terzo settore), ri-scaricando sulle donne in ambito privato, all’interno della cerchia familiare, funzioni che con investimenti e organizzazione più consistenti e sguardo più lungo, si potrebbero socializzare in termini di servizi condivisi. Pianificare e incentivare forme innovative e comunitarie di servizi di prossimità, innestandovi le nuove tecnologie – digitali in particolare, risorse che la pandemia ha spalancato davanti anche ai più diffidenti – può e deve essere la chiave per non sprecare la lezione al femminile di Covid-19, con vantaggio di tutti. Ma soprattutto con più giustizia. Per tutti.
L’invito pressante alle ragazze oggi è di pensarsi finalmente dentro competenze/professionalità Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics): ed è sacrosanto. Altrettanto lungimirante invitare i ragazzi e le ragazze a pensarsi dentro competenze/professionalità/organizzazioni collettive dedicate alla cura in modo innovativo. Entrambi in un’unica chiave: quella di un’economia della sostenibilità e della condivisione in luogo di un’economia del profitto e della finanza.
Laudato si’, ricordiamocelo, non è un’enciclica verde: è un’enciclica sociale. Un’enciclica da rileggere. In rosa.