Opinione

A cosa serve lo ius scholae

La legge italiana relega per anni alla condizione di “stranieri” centinaia di migliaia di studenti nati nella Penisola. La riforma valorizzerebbe invece la scuola e farebbe bene anche ai ragazzi italiani

Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori e Sociologia urbana all’Università Statale di Milano, interviene sul numero di ottobre de il Segno sullo ius scholae.

Abbiamo ancora negli occhi le immagini agostane delle Olimpiadi di Parigi, con sei medaglie conquistate da atleti azzurri nati all’estero, e varie altre ottenute da campioni e campionesse nati in Italia, ma con nomi e cognomi che rivelano radici lontane. Come le fortissime pallavoliste Paola Egonu e Myriam Sylla, per citare due nomi famosi. Le squadre nazionali sono lo specchio di una società che cambia, anche nella sua composizione demografica, e si arricchisce di nuovi apporti: sangue fresco, avrebbero detto gli studiosi positivisti dell’800. Il problema però sta nel fatto che, se le loro famiglie provengono dall’estero, anche per i campioni la cittadinanza è un percorso a ostacoli. Vestire la maglia azzurra nelle categorie giovanili, che preparano al grande salto verso le competizioni più prestigiose, a loro è precluso. Forse bisogna interrogarsi sul beneficio di questa esclusione per le sorti del nostro Paese. A settembre è suonata la campanella dell’inizio dell’anno scolastico. Abbiamo scoperto un’altra faccia dello stesso problema: nelle scuole italiane studiano 915 mila alunni con cittadinanza straniera, di cui 232 mila in Lombardia, quasi uno su quattro. Studiano la lingua, la letteratura, la storia, le istituzioni civiche del nostro Paese, con insegnanti italiani, insieme a compagni italiani. Affrontano verifiche ed esami che ne attestano le conoscenze acquisite. Eppure una norma che risale all’ormai lontano 1992 traccia un confine invisibile, che passa anche fra i banchi di scuola, e li mantiene fuori dalla piena appartenenza della società italiana almeno fino alla maggiore età, se sono nati e sempre vissuti in Italia, o li consegna a percorsi ancora più tortuosi e imperscrutabili se non hanno questa fortuna, o non hanno genitori in grado di ottenere, dopo dieci anni di residenza e altri tre o quattro di attesa, la sospirata cittadinanza.

L’Italia è il Paese con le norme più restrittive dell’Europa occidentale, soprattutto per quanto riguarda le seconde generazioni. La Germania ha recentemente alleggerito le condizioni per l’accesso alla cittadinanza dei figli d’immigrati: se un genitore risiede nel Paese da almeno cinque anni e ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, il figlio la ottiene automaticamente. La Francia riconosce la cittadinanza ai diciottenni, come l’Italia, ma sono sufficienti cinque anni di residenza, anche discontinui, dopo gli 11 anni d’età. Inoltre i figli di genitori nati in Francia sono automaticamente francesi. Il Regno Unito è più liberale, concedendo la cittadinanza ai figli di un genitore straniero residente a tempo indeterminato. La Spagna a sua volta richiede un solo anno di residenza per riconoscere la cittadinanza a chi nasce sul territorio nazionale. Siamo il fanalino di coda dell’Europa democratica. Le principali ragioni che in Italia vengono addotte per giustificare la lunga anticamera tuttora imposta anche alle nuove generazioni sono soprattutto due. La prima è l’alto numero di riconoscimenti della cittadinanza che comunque avvengono, anche con le norme vigenti, e attribuiscono all’Italia una posizione di vertice nel panorama europeo: 121 mila nel 2021, 133 mila nel 2022. Questo inatteso primato ha tuttavia una spiegazione: arrivano alla fatidica soglia dei dieci anni di residenza i molti immigrati arrivati e regolarizzati nel primo decennio di questo secolo.

La seconda giustificazione della chiusura fa appello invece a un argomento filosofico-politico: la cittadinanza va meritata. È vero che, rispetto a una concezione più liberale della cittadinanza come strumento per l’integrazione degli stranieri, si nota una tendenza a un ritorno verso una concezione più restrittiva, quella della cittadinanza come premio per un’integrazione già raggiunta nei fatti. Non per i minori però, verso cui prevalgono tuttora orientamenti liberali.

Su questo terreno s’innesta la proposta dello ius scholae, che ha un precedente in Grecia: tenendo nella debita considerazione l’idea che la cittadinanza vada riconosciuta come traguardo di un percorso di acculturazione alla vita, alle norme, alle tradizioni culturali del nostro Paese, si attribuisce alla partecipazione scolastica il compito di sancire il completamento del percorso. Centinaia di ore passate in aula, a

rispondere in italiano a interrogazioni e verifiche, a dimostrare l’apprendimento di materie dense di riferimenti alla cultura italiana, a socializzare con i compagni mediante la lingua italiana, dovrebbero essere una garanzia del raggiungimento della soglia di competenza richiesta. Strano che i detrattori della proposta insistano sul criterio della lunga residenza, affermando nel contempo che la cittadinanza non va regalata, ma appunto meritata. Come se gli anni passati in Italia, indipendentemente da come vengono spesi, contassero di più di quelli dedicati allo studio e certificati da esami e risultati finali.

Il valore della proposta dello ius scholae consiste appunto nel valorizzare l’istituzione scolastica come il luogo per eccellenza in cui si forgia il senso civico e la cittadinanza attiva. E questo dovrebbe valere per gli studenti di origine straniera come per quelli di discendenza italiana: il legame tra educazione e cittadinanza è la leva per suscitare un impegno ancora maggiore nella formazione dei futuri cittadini, in termini di progetti, ore dedicate, iniziative che vadano anche oltre le aule scolastiche. Promuovendo la conoscenza della Costituzione e delle istituzioni democratiche, esperienze di volontariato, educazione alla legalità, incontri con i testimoni dell’impegno civile e della promozione della pace. In questo senso lo ius scholae potrebbe diventare un volano per un investimento sulla formazione dei giovani – tutti, italiani e stranieri – alla cittadinanza attiva, di cui si avverte oggi la drammatica urgenza.