Pier Giorgio Frassati (1901-1925), proclamato beato da san Giovanni Paolo II nel 1990, è una figura emblematica della spiritualità giovane e dinamica del XX secolo. La sua canonizzazione, prevista per il prossimo 7 settembre, rappresenta un’occasione per riflettere sulla sua vita, che continua a ispirare giovani e adulti.
Nato in una famiglia dell’alta borghesia torinese, con genitori poco interessati alla fede, Pier Giorgio venne introdotto alla religione dalla nonna materna. Sin da bambino, mostrò un carattere benevolo e generoso, donando i suoi soldi ai poveri incontrati per strada, un gesto che rifletteva la sua predisposizione alla carità e all’aiuto degli altri.
Da adolescente, Frassati non brillava per i suoi studi: fu bocciato due volte, prima alle elementari e poi al liceo. Tuttavia, questo non impedì la sua crescita spirituale. Venne trasferito dai genitori all’Istituto sociale di Torino, dove entrò in contatto con la spiritualità ignaziana e si impegnò con entusiasmo nelle opere di carità, come le congregazioni mariane e la San Vincenzo. Fu proprio durante questo periodo che maturò un forte impegno nella Gioventù maschile di Azione cattolica (Giac) e nella Federazione universitaria cattolica (Fuci), spinto dal desiderio di vivere il Vangelo in modo concreto.
Frassati non si limitò a una fede teorica, ma la tradusse in azioni quotidiane: durante gli anni universitari, dedicò gran parte del suo tempo a visitare i quartieri poveri di Torino, portando pacchi, aiutando a trovare lavoro a chi era disoccupato e ascoltando le difficoltà della gente. Il suo impegno era volto a unire la fede alle necessità del suo tempo, mettendo al centro della sua vita l’amore per il prossimo e mantenendo sempre uno sguardo critico verso le ideologie del suo tempo, come il fascismo, che considerava antireligioso e disumano.
Non rinunciò mai a vivere la sua giovinezza con allegria e spirito di gruppo: amava praticare sport come il nuoto, lo sci e l’alpinismo e cercava occasioni per socializzare. La sua visione dell’amicizia era fondamentale: non solo un legame personale, ma un’opportunità per crescere insieme nella fede e nell’impegno sociale. Con la sua compagnia di amici (la “Compagnia dei tipi loschi”) creò una rete di relazioni forti e genuine, dove l’amicizia si fondava sull’impegno comune e sulla condivisione dei valori cristiani.
Il suo esempio non si limitava all’azione esterna, ma era radicato in una vita interiore profonda: la sua fede era centrata sull’Eucaristia, nella quale trovava la forza per agire e affrontare le difficoltà quotidiane e il suo impegno non era ostentato, ma nasceva dalla sua sincera interiorità, che lo spingeva a vivere il Vangelo in modo autentico e concreto. La sua morte prematura, a soli ventiquattro anni, a causa di una poliomielite fulminante, fu un dramma che scosse profondamente la sua comunità e che non fece che rafforzare la sua testimonianza di vita.
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