Lo scorso inverno le Alpi lombarde hanno registrato, in tutte le stazioni di monitoraggio, un accumulo totale di neve fresca da una volta e mezza a oltre due volte superiore alla media del periodo 1985-2023. Gli accumuli si sono concentrati nel tardo autunno solo a quote elevate (oltre 1.800-2.000 metri) e, soprattutto, nel periodo tra febbraio e marzo, mentre i mesi centrali dell’inverno (dicembre-gennaio) sono stati più asciutti.
Come interpretare questi dati nell’urgenza del climate change? Le precipitazioni hanno aiutato i ghiacciai, che si ritirano sempre di più?
Il Segno di gennaio ha interpellato, in occasione della Giornata mondiale della neve, che si celebra il 21 gennaio, in un anno, il 2025, dichiarato dall’Onu “Anno internazionale per la protezione dei ghiacciai”, Claudio Smiraglia, già professore ordinario di Geografia fisica all’Università degli Studi di Milano e membro del Comitato glaciologico italiano.
«Un solo inverno in controtendenza rispetto agli ultimi anni rientra in un quadro di normale dinamica meteorologica e non deve indurre nessuna deduzione. Ricordiamo una differenza fondamentale: il tempo meteorologico si modifica di giorno in giorno e può essere previsto con un anticipo di massimo 3-5 giorni. Studiare il clima significa invece analizzare le tendenze nell’arco di decenni».
La scorsa estate, a fronte di nevicate notevoli durante l’inverno precedente, non c’è stato alcun arresto nella fusione dei ghiacciai alpini. Il 2024 è stato infatti l’anno più caldo mai registrato a livello globale. I dati preliminari del programma europeo Copernicus e dell’Organizzazione meteorologica mondiale indicano che la temperatura media globale da gennaio a novembre è stata tra 1,5 e 1,6 °C sopra i livelli preindustriali, e la Lombardia non è stata da meno. In particolare, il caldo notevole e ininterrotto di luglio e agosto ha in gran parte vanificato lo straordinario innevamento primaverile.
«Un ghiacciaio vive sull’equilibrio delicato tra l’accumulo nevoso invernale che lo alimenta e la fusione estiva di neve e ghiaccio – spiega Smiraglia -. Possiamo avere anche 20 metri di neve durante un inverno, ma se d’estate tutta questa neve fonde a causa delle temperature elevate, è chiaro che il ghiacciaio non ne guadagna nulla. Dopo la scorsa estate, nell’insieme delle Alpi, i bilanci di massa sono stati comunque negativi per i ghiacciai, sebbene in maniera meno gravosa rispetto agli anni recenti».
Qualche vantaggio, però, c’è stato: «Sappiamo quanto l’acqua sia fondamentale per la vita quotidiana di ogni essere biologico e la siccità degli anni scorsi ce lo ha fatto comprendere ancora di più. Quando nevica tanto, la fusione estiva di quella neve è certamente un bene per il reticolo idrografico globale».
Quando questo avviene, come sta accadendo spessissimo negli ultimi anni, accade però in modo repentino: «L’acqua e il ghiaccio che fondono velocemente, in poche ore o giorni, unite a precipitazioni intense e concentrate nel tempo, come siamo stati abituati a vedere negli ultimi anni, producono frane e alluvioni che impattano in modo devastante sull’economia, ma soprattutto sulla vita delle persone».
Una riduzione anche immediata delle emissioni di gas serra avrebbe conseguenze positive solo tra diversi decenni. È molto probabile che, nel frattempo, la maggior parte dei ghiacciai alpini si saranno estinti, offrendo un paesaggio alpino molto diverso, in cui le classiche superfici bianche, sia di neve sia di ghiaccio, saranno concentrate solo in poche regioni e a quote molto alte».