Il servizio di copertina de Il Segno di luglio/agosto si intitola, provocatoriamente, “Il bello della penitenza”. Si parte da una riflessione di don Davide Caldirola sul sacramento della Confessione ai nostri giorni, ispirata alla Proposta pastorale dell’arcivescovo Delpini per il 2024-2025, particolarmente focalizzandosi su una sua frase: «Il confessore può suggerire anche un’opera di carità per il bene degli altri o della comunità, oltre che una preghiera». Don Davide sottolinea la necessità di un’alleanza tra penitenti e confessori, trovando gesti semplici per iniziare a ripartire. Soprattutto: la penitenza della confessione non dovrebbe avere lo scopo di punire, ma di ricostruire un quadro che si è rovinato. Un po’ come vuole fare la laicissima “messa alla prova”, il provvedimento istituito con la legge 67 del 2014 per alleggerire il sistema giudiziario dei procedimenti per reati minori (guida in stato d’ebbrezza, piccole lesioni, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, tentato furto, istigazione all’uso di stupefacenti, ecc.).
Con la messa alla prova la persona può scegliere una strada alternativa al processo chiedendo di svolgere un lavoro di pubblica utilità presso un ente convenzionato, pubblico o di volontariato, spesso a vantaggio delle persone più fragili.
Una misura di “giustizia di comunità” che, in questi ultimi anni, soprattutto in Lombardia, ha registrato un picco di richieste, passando dai 503 casi del 2014 agli oltre 25 mila del 2023, quota addirittura già superata nei primi cinque mesi del 2024. Ma di mezzo c’è la burocrazia, che rischia di soffocare questa possibilità. Ne parla Chiara Valori, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, spiegando passo per passo il funzionamento della messa alla prova; Annaclaudia Carignano e Andrea Molteni dell’Area carcere e giustizia di Caritas ambrosiana, che mettono il dito nella piaga delle difficoltà burocratiche: «Accogliere una persona che deve fare due-quattro ore alla settimana vuol dire avere un contatto con l’avvocato o con la persona, fare colloqui di conoscenza, gestire le comunicazioni con l’Uepe (Ufficio dell’esecuzione penale esterna) e il Tribunale, farsi carico dell’assicurazione dell’Inail, assolvere tutti gli obblighi formali, stendere la relazione finale. Questo vuol dire avere operatori che possano dedicare tempo a tutto questo e non tutti gli enti possono permetterselo». Raccontano esperienze sul campo Diletta Fransci, psicologa e responsabile della Rsa “Borsieri – Colombo”, gestita da Fondazione Sacra Famiglia a Lecco, e Michela Marognoli, della Cooperativa “Farsi Prossimo” di Milano.
Dalle interviste emerge il grande valore di questa misura come atto di “restituzione” alla società e anche come avvicinamento al sociale di persone che non vi sarebbero mai entrate in contatto.
L’articolo completo è pubblicato su “Il Segno” di luglio-agosto