Le rivoluzioni nascono così. Dal basso, da un piccolo gruppo di persone che si mettono in cammino, capaci di guardare oltre le miserie e le crisi che pure tutti vediamo. Nascono nei luoghi, dal piacere di darsi un progetto e un orizzonte comuni, da una mobilitazione capace di allargare il giro.
Per questo non è causale la scelta di convergere per il Cinquantesimo delle Settimane sociali a Trieste. Andare a Trieste (dal 3 al 7 luglio) significa stare sul confine di un’Europa che sta perdendo le ragioni stesse per cui è nata: quell’idea di concordia e di fratellanza (e sorellanza) tra popoli che troppo a lungo si erano fatti la guerra l’un con l’altro. Trieste è la città dove arrivano con i piedi piagati dalla fatica gli immigrati delle guerre oscene che noi stessi alimentiamo con le nostre armi, dalla Siria, dall’Afghanistan, dai Paesi del Mediterraneo, i ragazzi e le famiglie della rotta balcanica; Trieste è la città di Franco Basaglia e della rivoluzione intorno alla salute mentale e all’idea stessa di istituzione totale, che ci ha fatto sperare di essere capaci di farci carico delle sofferenze e di prendercene cura in modo non repressivo e punitivo; Trieste è la città dei mille culti, del dialogo tra credi religiosi, delle tante lingue e culture che convivono in spazi stretti; Trieste è la città delle intelligenze, dei saperi, delle scienze, dove l’università ha saputo promuovere cultura e competenze.
Registro, viaggiando per l’Italia, una grande attesa, un grande bisogno di trovare strade comuni. Nessuno oggi ha la ricetta in tasca, nessuno sa come riavviare quei percorsi di partecipazione e di attivazione popolare così necessari per la salute della democrazia. Come comunità cristiane siamo forti sui principi (soprattutto morali, ahimè), ma poi non siamo così attenti alla loro traduzione in pratiche e azioni. Da tempo abbiamo accettato di essere minoranza non troppo ribelle. Talvolta anche negli organi di governo della Chiesa c’è più attenzione alla visibilità che alla capacità di essere profetici e radicali nei nostri messaggi. Non sempre le comunità cristiane riescono a stare al passo con la radicalità che ci verrebbe chiesta dalle encicliche Laudato si’ e Laudate Deum. Persino i movimenti post-conciliari sembrano talvolta più preoccupati di sopravvivere e di risolvere i propri problemi interni che di osare un pensiero più alto e non compiacente. Registro tanta paura nel proporre un punto di vista che si distingua, attento all’uomo, ai suoi diritti, alla natura. Paradossalmente, è proprio il timore di restare schiacciati e diventare insignificanti a renderci tali. Che posizione abbiamo sull’immigrazione, sulla pace, sul lavoro, sulla finanza, sull’ambiente, sulla nostra storia e Costituzione antifascista? Il silenzio prudente non può essere un’opzione, ma spesso purtroppo lo diventa.
Per molto tempo abbiamo coltivato l’idea che il nostro fosse un compito soprattutto di testimonianza, lontano dalle arene politiche, prudente nell’espressione, lontano dai riflettori. Molti di noi hanno pensato di poter fare di più e meglio entro un’azione sociale, di volontariato, di educazione diffusa. E nel tempo questa nostra cautela è diventata indifferenza e scarsa incisività, ci ha fatto uscire dal dibattito pubblico, nel quale – salvo eccezioni – non si riconosce più la voce dei laici e delle laiche cattoliche. Ma di fronte alle guerre e alla violenza, alle spinte populiste e alla crisi dei percorsi democratici, alle richieste urgenti dei giovani, possiamo accontentarci di buone azioni che non diventino parola, presa di posizione, cultura e politiche pubbliche? Penso di no. Non credo a un cattolicesimo di testimonianza, che si limiti a fare bene nel proprio recinto senza disturbare il manovratore (che di volta in volta può essere espressione di una parte politica o l’altra). Azioni che non si traducono in politiche per tutti sono destinate a non lasciare il segno. È un tradimento dei nostri valori. Ecco perché come Comitato scientifico, e in grande unità di intenti con il nostro presidente Luigi Renna, abbiamo da subito pensato che forma e contenuto, messaggio e metodo dovessero coincidere.
Sono state prese tre decisioni importanti:
1. Cambiare nome: Settimane sociali dei cattolici in Italia (e non italiane) per includere quelle tante realtà immigrate che vivono nel nostro Paese ed esprimono modi altri e creativi di dirsi cristiani.
2. Aprire a tutti tanti contenuti della Settimana sociale (le piazze, gli spettacoli, i momenti pubblici con papa Francesco, i momenti conviviali), in primis ai triestini che ospiteranno la manifestazione.
3. Prevedere momenti di confronto tra i delegati e 15 piazze tematiche di discussione aperte a tutti in città. Un grande e diffuso “pensatoio” intorno alle grandi questioni aperte del nostro tempo con ospiti che verranno dai più diversi mondi sociali.
Se tutto si chiudesse con un amen dopo la Messa del Papa del 7 luglio avremmo certamente combinato poco. Se riscopriremo insieme il gusto e il senso del nostro dire, fare e partecipare, forse potremo davvero sperare che non tutto sia ancora perduto.