Assistenza

Cure palliative, convivere con la sofferenza

La malattia, il dolore e la morte tendono a essere rimossi, ma fanno parte della vita. Come spiega Giada Lonati (Vidas), la strada è imparare a relazionarsi con essi, aumentando la formazione sulle terapie e la loro diffusione. Se ne parla ne «Il Segno» di settembre
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Le cure palliative vanno molto al di là della pratica medica: riguardano la dimensione sociale, psicologica e in qualche modo spirituale del paziente. Meglio sarebbe definirle «una presa in carico della sofferenza», che varia a seconda del paziente e della famiglia e che necessita di un’adeguata formazione professionale. Spesso medici e personale predisposto evitano di affrontare il tema e non sono adeguatamente preparati a gestire le espressioni più umane della sofferenza. Se ne parla nel numero di settembre de Il Segno

Giada Lonati, medico palliativista e direttore sociosanitario di Vidas – l’associazione di volontariato no profit milanese che dal 1982 assiste gratuitamente i malati terminali e le famiglie nelle ultime fasi della vita -, interviene sottolineando che il problema sta nella rimozione del limite: «Non siamo più abituati a prenderci cura della sofferenza. Non siamo preparati neppure dal punto di vista del vocabolario. Come si può vivere senza mai considerare la morte?».

C’è poi il problema di parenti e amici che decidono di negare l’esistenza della malattia al paziente per proteggerlo, per far sì che non si lasci andare, per non perdere la speranza, privandolo però di legittime informazioni sulla salute: «C’è chi affronta la sofferenza in modo positivo, scoprendo bellezza e trasformazione anche in momenti difficili. Altre persone meno, e si trasformano in peggio. Il vero peccato è però non offrire gli strumenti giusti per vivere questa fase della vita. Perché l’incontro con la sofferenza ci fa vivere l’esperienza di fratellanza più forte che esista. È importante invece sentirsi parte di una comunità che compie un viaggio. Se quindi la sofferenza fa parte del percorso di tutti, paradossalmente in quel momento non sono così solo, sono parte di un’umanità sofferente».

In alcune discipline, poi, il dubbio di essere onnipotenti è forte e lascia confusi quando si affronta la realtà del fallimento. Un atteggiamento che scarica sul medico la maggior parte della responsabilità. Siamo abituati infatti a valutare questa figura in base alla sua capacità di risoluzione: se ci salva è bravo, se non ha risposte è scarso e lo si sostituisce. Comprendere i propri limiti renderebbe il lavoro più semplice anche per i medici. C’è una grande responsabilità nell’offrire un’immagine chiara e franca, perché i pazienti lo sanno quando stanno male davvero, e necessitano di una cura non solo fisica. «Forse – aggiunge Lonati – abbiamo bisogno di quel supplemento di saggezza di cui parlava Carlo Maria Martini. Perché i pazienti sono più disponibili a sentirsi dire che i miracoli non esistono, almeno dal punto di vista della medicina. E a essere accompagnati qualche volta sono i medici che non sono capaci di dire “non lo so”. Credo che una migliore capacità relazionale fatta di ascolto dell’altro renderebbe anche meno traumatici alcuni aspetti».

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