Pubblichiamo una sintesi dell’inchiesta a più voci su “Il Segno” di gennaio sulle condizioni di salute mentale dei detenuti e le difficoltà ad avere perizie psichiatriche che eviterebbero il carcere ai patologici
In carcere la vita è appesa a un filo. Un filo invisibile che si chiama affetto, relazioni, speranza, futuro. E quando si spezza, i detenuti scivolano nel baratro: il malessere, fisico e psichico, li porta alla disperazione, fino a commettere atti di autolesionismo o a farla finita col suicidio. E se prima il carcere era definito la “discarica sociale” ora è diventato un nuovo manicomio: per la presenza crescente – assurda e ingiusta – di persone con disturbi mentali anche gravi che necessitano di cure specifiche e di monitoraggio adeguato.
La chiusura degli Opg non è stata ben gestita, come spiega Valeria Verdolini, referente per la Lombardia dell’Associazione Antigone, che dichiara insufficiente la capienza delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e troppo lunghe le liste d’attesa, fino a 8-12 mesi.
L’aumento del numero di suicidi non si può imputare solo al lockdown che ha costretto i detenuti all’isolamento e a ridurre i contatti con i famigliari, limitati a videochiamate e telefonate, con visite in presenza sospese per lunghi mesi. Silvia Landra, psichiatra a San Vittore e Bollate, riconosce tre forme di sofferenza: la patologia reattiva (lieve-media) che colpisce le persone al primo impatto con la vita detentiva; la patologia grave, già conclamata, in persone che quindi attendono il trasferimento nelle Rems; patologia che si sviluppa in carcere, rimasta latente fino a quel momento.
Il cappellano di San Vittore, don Roberto Mozzi, denuncia la mancanza di perizie psichiatriche per chi soffre visibilmente di malattie mentali e che non dovrebbe stare in carcere, tra le persone che si sono suicidate alcune soffrivano di disturbi della personalità. Il 2022 è stato l’anno peggiore in assoluto, negli ultimi dieci anni 583 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre.
In 20 anni di lavoro sul territorio la psichiatra Anna Giroletti, ora responsabile del Servizio di psichiatria penitenziaria dell’Asst Santi Paolo e Carlo, non ha mai avuto tante difficoltà a fare una diagnosi come invece le accade in carcere: i confini per definire schizofrenia, psicosi o disturbo affettivo sono molto labili. Casi quindi molto complessi con disturbi stratificati. Eppure San Vittore risulta ancora una “macchina” capace di contenere la complessità.
Quello che è mancato di più in questi anni è la relazione con i propri cari e con il mondo del Terzo settore. A dirlo è Ileana Montagnini, presidente della Conferenza volontariato giustizia della Lombardia, che insiste perché l’utilizzo dei cellulari e degli strumenti tecnologici si diffonda di più negli istituti di pena (pur con i dovuti controlli) per favorire i rapporti famigliari, specie se molto distanti.
Non se la passano meglio i minori, che spesso, per reggere alle condizioni detentive, devono assumere psicofarmaci, come osserva Valerio Pedroni, già presidente della sottocommissione Carcere, pene e giustizia del territorio del Comune di Milano. Giovani aggressivi e sempre meno facili da gestire anche da parte della polizia penitenziaria.
La situazione delle carceri l’ha conosciuta bene anche la ministra Marta Cartabia che, nel corso del suo mandato, ne ha visitate diverse. Da qui è nata la scelta di introdurre nella sua Riforma della giustizia alcune sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi così da evitare l’ingresso in carcere a più soggetti e ridurre il sovraffollamento. Tuttavia il decreto, bloccato dal nuovo governo, non è ancora stato applicato.