Una famiglia in missione nella terra di Gesù. Il primo a stupirsi di questa nuova avventura per la Diocesi di Milano è don Maurizio Zago, responsabile per la Pastorale missionaria, che pure ha contribuito al buon esito del progetto. Una giovane coppia, Arianna Fondrini (27 anni) di Ardenno e Giacomo Giardini (28 anni) di Brugherio, con il figlio Agostino di appena un anno, partiranno come fidei donum per la Terra Santa. Dopo aver ricevuto dall’arcivescovo Delpini il mandato missionario (insieme ad altri missionari) durante la Veglia in Duomo del 22 ottobre, a novembre prenderanno il volo per Gerusalemme dove andranno a gestire una casa famiglia. «Nel luglio scorso, insieme a don Zago, abbiamo fatto una visita di conoscenza per essere certi che fosse una proposta adatta a noi e poter vivere serenamente questo servizio», spiega Arianna.
La missione ce l’hanno nel cuore. «Io e mia moglie ci siamo conosciuti frequentando il cammino Giovani e missione del Pime – racconta Giacomo -, e quando ci siamo fidanzati per poi sposarci abbiamo iniziato anche il percorso dell’Alp (Associazione laici Pime, ndr) per partire come laici in missione per qualche anno». Mentre aspettavano la nascita di Agostino hanno dato la loro disponibilità, ma presso le missioni del Pime non c’erano le condizioni per una famiglia con un bambino piccolo. Poi grazie alla richiesta di suor Claudia Linati (Orsolina di San Carlo che già gestiva la casa famiglia) e all’invito giunto dalla Diocesi, ora il sogno si avvera. «Siamo contenti e pronti a partire», assicura Arianna. Poi aggiunge: «Il Vangelo che avevamo scelto per il nostro matrimonio era quello dei due discepoli di Emmaus (Luca 24) che, dopo l’incontro con Gesù, fanno ritorno con gioia a Gerusalemme. Quando ci hanno proposto questa esperienza a Gerusalemme abbiamo subito pensato a quel brano». Più che una coincidenza, sembra una profezia. «Questa chiamata anche da parte della Diocesi credo sia un’occasione molto bella per la nostra famiglia».
La casa famiglia è gestita dal Vicariato per i migranti e i richiedenti asilo del Patriarcato latino di Gerusalemme. Attualmente ospita 9 minori (tre femmine e sei maschi) di età compresa tra i 10 e i 17 anni, di origine filippina ed etiope, tra loro alcuni sono anche fratelli. Ognuno arriva per motivi diversi (povertà, malattia dei genitori o altro), ma non sono orfani.
La Casa degli angeli custodi, dove abiteranno i coniugi Giardini con il figlio, è nata nel 2017, ma già prima padre David Newhouse, vicario per i cattolici di lingua ebraica, ha accolto i primi tre fratelli, figli di immigrati nati tutti in Israele, che rischiavano di essere sottratti alla madre e assegnati ai servizi sociali. «Piuttosto li prendiamo noi», aveva detto il religioso, altrimenti sarebbero stati inseriti nel circuito ebraico perdendo anche i loro riferimenti di fede cattolica.
All’inizio la struttura era gestita da due donne della Comunità Papa Giovanni XXIII, cui era stata affidata la cura educativa dei minori, ma nell’arco di due anni sono rientrate in Italia. Durante il Covid, due giovani educatrici israeliane di Nazareth e di Jaffa della comunità cattolica hanno lavorato per un anno e mezzo. «Nel settembre 2020 – racconta suor Claudia – sono diventata io la responsabile della casa fino al dicembre 2021, inserendo anche educatori e volontari che si alternavano». Poi ha iniziato a cercare una coppia che prendesse il suo posto e ora il testimone passa ad Arianna e Giacomo.
Tutte le attività sono legate al Centro Rachele dove padre David aveva iniziato a ospitare i bambini che dopo l’asilo o la scuola rimanevano soli, perché le madri lavoravano anche fino alle undici di sera. In seguito, grazie ai frati cappuccini, che hanno messo a disposizione un’ala abbandonata della loro casa (poi ristrutturata) e un bel giardino, oggi il Centro comprende un asilo nido e il doposcuola, ma in realtà accoglie anche i bimbi dai tre anni in su.
La Chiesa di lingua araba è la più grande, mentre quella in lingua ebraica è esigua, eppure dal 2010 si fa carico, con pochissime risorse, di tutta la Pastorale dei migranti e rifugiati che in Israele sono circa 200 mila, provenienti da India, Filippine, Africa, Etiopia, Eritrea, Sudamerica e dall’Est. Le famiglie migranti lavorano pressi gli ebrei e vivono nei loro quartieri. I bambini frequentano le scuole ebraiche statali rispettando le festività del calendario ebraico; anche il catechismo per i figli degli immigrati è in lingua ebraica.
In Israele chi entra con un visto di lavoro non può portare i figli, infatti le donne straniere li lasciano in patria presso nonni, zii e parenti. «Poi se nasce un figlio di padre israeliano, filippino, eritreo… le madri hanno tre mesi di tempo per allattare il bambino che poi deve essere rimpatriato – spiega suor Claudia -. Se questo non avviene la madre perde il visto e diventa irregolare insieme a suo figlio. La maggior parte delle mamme tengono i loro bimbi e lavorano in nero. Per Israele l’irregolarità è quasi normale, ma la polizia può fermare le donne per strada in qualsiasi momento e rimpatriarla in 12 ore. Per questa si tratta di una popolazione sottomessa, impaurita, che non manifesta, non rivendica i propri diritti e di fatto non esiste».
Ora il problema si pone per quei figli che stanno raggiungendo i 18 anni: nessuno sa saranno rimpatriati in un Paese a loro sconosciuto o se Israele farà una scelta politica forte concedendo loro un permesso per rimanere.