Leggiamo nel Vangelo di Giovanni (10): «Il Pastore conosce le sue pecore», anzi «le chiama per nome», le guida al pascolo, le difende dall’assalto dei lupi. In una parola: si prende cura del suo gregge. Nel corso dei secoli la Chiesa ha “inventato” tre forme di questa cura del Vescovo per la sua città e per la sua Diocesi.
La prima: dove deve abitare il Vescovo? Sembra una domanda ovvia, per la quale abbiamo una risposta altrettanto ovvia: nella città di cui è Vescovo. Eppure questa domanda ritorna più volte nella storia della Chiesa: segno evidente che il legame “fisico” tra il Vescovo e la sua città non era scontato. In epoca medievale due autorevoli raccolte di “leggi” (Decreto di Graziano e le Decretali di papa Gregorio) affrontano il problema, che troverà solenne pronunciamento al Concilio di Trento, con l’obbligo del Vescovo di abitare nella città di cui è Vescovo. Nel rispetto di questa norma san Carlo – che era stato nominato Arcivescovo di Milano dallo zio materno papa Pio IV nel 1564 – arriverà a Milano, ma solo nel 1566, dopo la morte dello zio Papa. Da ottant’anni Milano non aveva il suo Arcivescovo in sede. Carlo ha appena 28 anni e per diciotto sarà il pastore che si prende cura del suo gregge. Possiamo dire che, proprio grazie a san Carlo e al suo impegno perché venissero applicate le norme stabilite dal Concilio di Trento – tra cui l’obbligo del Vescovo di risiedere nella città di cui è pastore – un singolare legame si è creato tra Vescovo e città, tra Milano e il suo Arcivescovo. Il legame tra il Vescovo e la città si crea e si costruisce anzitutto perché il Vescovo abita la città, non risiede altrove godendo le rendite della sua Chiesa affidata ad altri collaboratori, come avveniva in un lontano passato. Il Vescovo deve abitare nella sua città perché solo così può davvero prendersi cura del suo gregge.
Una pagina del Vangelo di Luca (19, 41s) dice con singolare intensità la qualità della relazione tra Gesù e la sua città, Gerusalemme. Sul crinale del Monte degli Ulivi un giardino racchiude una piccola cappella con una grande vetrata aperta sulla città. Una vista magnifica, soprattutto quando il sole che tramonta accende le belle pietre della cinta delle mura. La tradizione dice che proprio lì Gesù pianse, pensando alla imminente sorte della città. Ogni volta che torno in quel giardino mi dico: io non ho mai pianto per le sorti della mia città, del mio Paese e della sua gente, e invece qui Gesù ha pianto per le sorti della sua città, la sua imminente rovina. Niente di meglio di questa pagina esprime il legame che deve stringere il Vescovo alla sua città.
Il termine «città» è la traduzione del greco polis, da cui «politica», appunto l’impegno per la città. Il pianto di Gesù è quindi davvero un pianto politico, e la sua parola è anche una parola “politica” per la città. La venuta di Gesù, che abbiamo accolto nel Natale, è certamente, in primo luogo, un fatto personale che coinvolge la mia coscienza in una relazione individuale: quante volte Gesù ha preso tempo per una sola persona, per un dialogo a-tu-per-tu… Ma la sua venuta è un fatto storico, collettivo, direi appunto politico nel senso stretto del termine: riguarda anche la coscienza civile, i grandi problemi della città, del Paese, dell’intero pianeta. Non possiamo sottrarci alle responsabilità civili, politiche che scaturiscono dalla nostra fede. Taluni rimproverano a papa Francesco una insistenza su temi “politici”, che toccano la convivenza civile, il bene comune, la tutela dell’ambiente, la giustizia verso immense moltitudini di affamati, vittime della violenza, costrette a fuggire dai loro Paesi… Quando Francesco leva la sua voce non per rivendicare privilegi per la Chiesa, ma per dare voce a quanti non hanno voce perché schiacciati dall’arbitrio dei prepotenti, è davvero defensor civitatis, «difensore della città» e dei suoi abitanti. E così fa il nostro Arcivescovo quando, alla vigilia della festa di Sant’Ambrogio, nel solco aperto dai suoi predecessori si rivolge alla città con un Discorso che ogni anno tocca alcuni tra i problemi più urgenti del nostro vivere in questa città. È, questa, una seconda occasione per il Vescovo di rivolgersi non solo ai suoi fedeli, ma alla città e a quanti, a vario titolo, portano la responsabilità della civile convivenza.
Vi è un terzo modo grazie al quale si salda il legame tra il Vescovo e la città: la visita pastorale dell’Arcivescovo, che a Milano occuperà tutto quest’anno da poco iniziato. Abbiamo documentazione circa questa pratica già a partire dal 1302. San Carlo – attuando una disposizione del Concilio di Trento – compì due visite (la seconda una volta passato il flagello della peste). La Visita pastorale non doveva solo portare la parola del Vescovo per confermare nella fede e nella vita cristiana i fedeli, ma anche verificare lo stato dei luoghi di culto, la situazione economica. Particolare cura il Vescovo aveva per i preti, arrivando a chiedere l’elenco dei libri della biblioteca personale di ogni prete. Dagli elenchi ancor oggi conservati nell’Archivio diocesano, apprendiamo che taluni disponevano solo di una decina di libri(!). Negli ultimi decenni gli Arcivescovi hanno tentato modalità diverse per non fare mancare la loro presenza in ogni parrocchia: una impresa francamente ardua, pur ricorrendo all’aiuto di collaboratori. Eppure nessuno dei nostri Vescovi si è sottratto a tale oneroso, eppur prezioso servizio.
Abitare la città, parlare alla città e incontrare tutte le parrocchie della città: tre forme del legame tra il Vescovo e la città.