Venticinque anni fa, in un libro intenso, a metà tra il romanzo e l’autobiografia, Giuseppe Pontiggia faceva i conti con la propria esperienza di padre di un figlio disabile. Il libro, a dire il vero, non parla solo di disabilità, ma tocca una quantità di temi diversi, sempre con rara intelligenza, rigore morale e una delicata ironia.
Nelle ultime pagine, in una breve parentesi, l’autore si sofferma sul volontariato. Confessa di averlo a lungo considerato — a torto — come «un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé». Un giudizio severo e ingiusto, che nasce, secondo lui, da una diffusa diffidenza nei confronti del bene e da una rassicurante propensione a «ridurlo al male, commutandolo di segno e assimilandolo ai modelli negativi che ci sono noti». È un paradosso che può sorprendere, ma che descrive realisticamente la tendenza a liquidare frettolosamente «l’altruismo come controfigura dell’egoismo, la generosità come gratificazione di chi la esercita, la solidarietà come aiuto provvidenziale a se stessi».
Chissà che non susciti reazioni simili anche l’esempio di chi, rinunciando al meritato riposo delle vacanze estive, investe il proprio tempo per portare aiuto a chi ne ha bisogno. I discorsi attraverso i quali cerchiamo di esonerarci da un possibile impegno sono i più diversi e tutti ragionevoli: ciò che possiamo fare è appena una goccia nel mare, lascia il tempo che trova; d’altra parte, anche il volontariato chiede competenza e continuità, non può essere improvvisato.
Forse è proprio vero, come suggerisce Pontiggia, che il male da un certo punto di vista è rassicurante: «conferma la nostra superiorità o conforta la nostra debolezza». Il bene, al contrario, ci mette in difficoltà: «è un esempio inimitabile». E ancora: «il male ci incuriosisce e ci eccita, stimola l’investigazione, si cela nell’ultima stanza, quella del segreto infame. Il bene apre le porte, non nasconde nulla, si apparta solamente per non farsi notare. Il male promette misteri, il bene è un mistero luminoso, una presenza inaccettabile».
Questo significa, in fondo, che il bene è più alla nostra portata di quanto crediamo. Non ci chiede il lavorio intrigante del male; non deve essere scovato chissà dove. Se invece di difendercene, proviamo ad accettarlo, ci accorgiamo che ha un fascino ineguagliabile. Sostituire l’ammirazione (e la gratitudine) alla diffidenza è il primo passo perché la sua luce ci conquisti. E perché, prima o poi, ci venga anche voglia di rimboccarci le maniche.