Intervento

Libano: dalla resilienza alla rassegnazione

Dal crollo delle banche e della moneta, alla carenza cronica di energia, fino all’esplosione del porto, il Paese sembrava capace di abituarsi a tutto. Oggi, con la guerra e l’esodo dei giovani, sta perdendo il suo sangue vitale

Un po’ alla volta, ci si può abituare a tutto. Nel 2016, quando sono arrivato in Libano, mi sembrava che il Paese fosse normale, nella sua vita di tutti i giorni. Un sistema economico che permetteva di lavorare, di mandare i figli a scuola, comprare una bella automobile e anche di andare in vacanza.

Solo due le “anomalie” con cui, comunque, all’epoca si riusciva a convivere: la prima, una quantità sproporzionata di profughi siriani con le loro tendopoli, accampate nella valle della Beqaa, conseguenza della guerra civile a Damasco; la seconda, la mancanza strutturale di energia elettrica e lo spreco d’acqua. Nonostante il Paese sia il più ricco d’acqua in tutto il Medio Oriente, il Libano aveva e ha un sistema idrico pieno di falle, nessun’acqua potabile nelle case, una minima presenza di centrali idroelettriche e la luce che salta diverse volte al giorno perché lo Stato non può garantire elettricità 24 ore su 24. A supplire le mancanze del pubblico, un sistema molto diffuso di generatori privati gestiti da piccoli imprenditori che vendono, di condominio in condominio, la loro energia. Ingegnoso. Però, non la soluzione al problema.

Poi, nel corso degli anni, tante altre anomalie: il fallimento del sistema bancario, ad esempio, quando, di punto in bianco, una brutta mattina, una fetta consistente della classe borghese si è risvegliata povera, non potendo più ritirare i propri risparmi. Il Paese ha tirato avanti e si è abituato.

Poi l’esplosione del porto di Beirut, che ha distrutto più di un quartiere: si è ricostruito, con tanti aiuti internazionali, ma a oggi non si è ancora trovato un responsabile del disastro e ci si è abituati all’idea che non lo si troverà mai.

Poi la svalutazione della lira libanese che è diventata carta straccia. Così ci si è abituati a comprare e pagare in dollari americani. Ci si è abituati, ma non è normale. Poi, da un anno e mezzo, la mancanza di un presidente della Repubblica e di un governo legittimo, perché i politici non riescono a mettersi d’accordo su un nome. Così ci si è abituati a navigare senza timoniere. Poi la guerra a Gaza e, per quasi un anno, uno scambio di razzi tra Hezbollah e Israele, localizzato solo nel sud del Paese. A sud c’era la guerra, ma a Beirut non ne sentivamo le conseguenze. Così un po’ alla volta ci siamo abituati a uccidere e a farci uccidere, mentre i razzi sono caduti sempre più a nord, arrivando infine a ferire Beirut. La resilienza, questa capacità di assorbire copi e problemi, e di ripartire nonostante tutto, è una virtù. Ma l’abitudine a subire e a non avere mai la possibilità di cambiare e di costruire qualcosa di buono, porta alla rassegnazione e alla scelta di abbandonare il Paese. Così il Paese è sempre più dissanguato del sangue vitale di quei giovani che partono perché, appunto, non si vogliono abituare.

Il Libano, per come l’ho conosciuto io, è il Paese del “desiderio di normalità”. Un esempio: ero a Beirut in occasione dei mondiali di calcio in Russia (2018) e in Qatar (2022). È impressionante vedere il tifo che, in queste occasioni, si impadronisce di tutti, donne e uomini, giovani e anziani. Il Paese si divide tra tifosi della Germania o del Brasile, dell’Italia o della Francia. Gente magari che non ha mai viaggiato al di là di Cipro. Bandiere di tutto il mondo ovunque: alle finestre, sulle automobili, sulle spalle… Gente di Sidone o di Tiro che piange se la squadra di adozione ha perso la finale, oppure che, se ha vinto, festeggia fino all’alba. Tutto il Paese è in festa, in un modo che può sembrare infantile, ma che rivela un “esorcismo” sulle bandiere: basta bandiere che si sventolano “contro” un nemico, o per segnare un territorio in cui gli altri non possono entrare. Bandiere invece per essere spensierati e per festeggiare con tutto il mondo. Sull’autostrada litoranea che da Tiro arriva a Tripoli ci sono molte pubblicità. Questa estate, in piena guerra, le pubblicità erano quelle dei costumi da bagno, dei festival musicali, delle agenzie turistiche. Il desiderio legittimo di un’estate normale, nonostante tutto.

Una pubblicità mi ha colpito tantissimo: enormi cartelloni di una associazione che si chiama “No alla guerra”. Al centro la foto di alcune donne straziate che escono da un funerale. Sotto, in arabo, la scritta: “Ne abbiamo abbastanza”. Che passi dovremo fare per tornare a vivere la normalità della vita?

Il Libano è un Paese di montagna. Ci sono vette che superano i 3 mila metri e si scia d’inverno. Ho in mente due posti panoramici meravigliosi che sono un simbolo e una profezia. Il primo è Harissa, un promontorio affacciato sul mare a nord di Beirut: da un secolo una monumentale statua della Vergine Maria domina il sito con lo sguardo rivolto verso il mare. Bianca, la vedi da lontano, come la Madonnina del Duomo di Milano. Il santuario, visitato anche da Giovanni Paolo II nel suo memorabile viaggio, oggi è meta di una quantità incessante di devoti, cristiani e musulmani. Sì, anche musulmani. La Vergine di Harissa è il segno dell’unità possibile di tutti i libanesi, nonostante le loro divisioni. L’altro monte è l’Hermon a sud del Paese, sul confine con Israele. Molti esegeti dicono che la trasfigurazione di Cristo avvenne sull’Hermon. Da lassù in alto Gesù poteva vedere Gerusalemme, a sud, e Baalbek, capitale del paganesimo, a nord. Mostrare ai suoi contemporanei la sua gloria di Principe della Pace, unica salvezza del mondo. Oggi dalla cima dell’Hermon Gesù guarda i nuovi nemici, Israele e il Libano, proponendo, se la vorranno, ancora una volta la sua Pace.

Leggi l’articolo completo su Il Segno di novembre