Analisi

Il massacro di Gaza può mettere fine alla crisi nello Yemen

Paradossi di guerra. Dopo l’attacco terroristico di Hamas in Israele, la milizia filo-iraniana terrorizza il Paese sta sfruttando l’occasione di un insperato protagonismo. Pubblichiamo il testo integrale di Laura Silvia Battaglia
Foto Xinhua News Agency/eyevine/Contrasto

Nessuno avrebbe dato loro un baiocco. Ma dopo l’azione eclatante del lancio del drone armato dallo Yemen verso Eilat in Israele lo scorso 10 novembre, e i successivi attacchi pirata contro navi battenti varie bandiere nelle acque tra Asia e Corno d’Africa, gli Houthi yemeniti sono ritornati alla ribalta delle cronache internazionali, con sorpresa, sgomento, incredulità.

Eppure da ben 9 anni hanno messo a ferro e fuoco un Paese prima più noto per la sua archeologia e la sua natura lussureggiante che non per fame e guerra e sono riusciti a imporre sul suo Nord una legge ferrea e un sistema di sicurezza impenetrabile: dalla fine del 2014, ossia da quando questa milizia sciita è letteralmente calata dalle montagne di Saada, al confine tra Yemen e Arabia Saudita, verso la capitale Sana’a, nello Yemen del Nord vige un sistema di controllo capillare. Il sistema è ricalcato, per quanto riguarda la governance, l’intelligence e la propaganda sul modello iraniano e, per quel che riguarda la sua ala militare, sulla struttura della milizia regionale che le è maggiore d’età ed esperienza: Hezbollah in Libano.

Già durante la rivoluzione yemenita del 2011, che disarcionò il dittatore locale Ali Abdullah Saleh, così come le altre primavere arabe fecero fuori i vari Ben Ali, Mubarak e Gheddafi, gli Houthi apparivano una forza pacifica di piazza al fianco di altre realtà: laiche come l’ala del movimento Al-Hirak del Sud o ad ispirazione religiosa come il partito Islah dei Fratelli musulmani yemeniti. Ma la radice degli Houthi era chiara come il sole: foto, santini, Cd e libri del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah venivano venduti e distribuiti con molta solerzia e i suoi discorsi si ascoltavano religiosamente nelle tende accampate nell’area dell’università di Sana’a, quasi al pari del richiamo alla preghiera del tardo pomeriggio.

Ma anche allora gli Houthi erano stati sottostimati: si pensava fossero degli sciiti yemeniti un po’ troppo attaccati alle tradizioni dell’imamato perduto, di cui rivendicavano nostalgicamente le radici pre-ottomane senza molta concretezza, e si aveva per loro una certa pena dovuta alle guerre interne che l’ex presidente Saleh portò alle loro tribù durante gli anni Novanta. Anche subito dopo, durante gli anni posteriori alla rivoluzione, l’Unione europea e gli Stati Uniti dell’amministrazione Obama quasi incoraggiarono la loro partecipazione alla Conferenza di Dialogo nazionale, salvo poi accorgersi, con colpevole ritardo alla fine del 2013, che ne erano i sabotatori, e soprattutto che erano molto contrari al principio votato da quasi tutti gli altri rappresentanti alla Conferenza: il disarmamento delle tribù. In quegli anni gli Houthi al posto di spogliarsi dell’artiglieria, si riarmavano e, al posto di contribuire a un progetto collettivo, si attrezzavano, economicamente e politicamente, per costruire il proprio: un nuovo governo, appunto un imamato presieduto dal loro leader Abdulmalik al Houthi, considerato il mahdi, il messia che anticiperebbe la fine del mondo; un nuovo Yemen autonomo dalla Lega Araba, sciita, anti-saudita, anti-americano e anti-israeliano. Il motto degli Houthi “Morte all’America, morte a Israele, siano maledetti i giudei, vittoria all’Islam” per tutti gli anni della guerra in Yemen in cui gli Houthi hanno conquistato circa il 60% del territorio dello Stato pur soffrendo la fame e il blocco dei beni primari sotto i bombardamenti sauditi, è parso una posa, soprattutto alle agenzie internazionali. Adesso, con il conflitto rinnovato tra Israele e Palestina nello specifico contenzioso tra Tel Aviv e Hamas, ci si è accorti che forse questa milizia non scherzava per niente.

In questi anni la minaccia Houthi è stata rivolta soprattutto contro i diretti nemici di guerra: il governo lealista yemenita, dunque contro le sue truppe e i suoi ufficiali; l’alleato saudita, dunque contro le sue infrastrutture petrolifere; l’alleato emiratino, dunque contro i suoi porti, aeroporti e sistemi di protezione dello spazio aereo. Ma con il nuovo balzo tattico di Hamas avvenuto con l’azione terroristica del 7 ottobre contro i kibbutz israeliani al confine con la Striscia, gli Houthi hanno voluto far capire che non sono da meno.

È importante capire a chi desiderano farlo capire. Certamente per prime alle stesse forze politiche e alle loro ali militari dell’asse regionale iraniano e filo-iraniano: l’obiettivo è auto-legittimarsi con azioni eclatanti che li pongano, se non al pari di Hezbollah e di Hamas, almeno molto vicino a essi. Il concetto è: noi ci siamo, siamo capaci di cose che non immaginereste, guardateci. Il messaggio secondario è per i nemici formali: Israele, appunto. Anche qui, è una tecnica eclatante per affermare la propria esistenza, consolidare i proclami di anti-americanismo e anti-sionismo, riaffermare quanto Hamas ha già abbondantemente dimostrato: la vulnerabilità militare e politica di Israele. Last but not least, il messaggio finale degli Houthi va alla Lega Araba, in particolare all’Arabia Saudita e agli Emirati. Se un drone armato o un razzo a lunga gittata riescono ad arrivare a Eilat e colpire una scuola, ingannando il sistema di protezione aereo israeliano Iron Dome, e sorvolando il territorio saudita senza toccarlo, il warning è per Mohammed ben Salman e per la dinastia dei Saud, affinché ci pensino più di una volta a proteggere i luoghi sacri all’Islam, le loro raffinerie, e affinché ci pensino mille volte a firmare gli Accordi di Abramo che, guai a loro, gli Emirati hanno già firmato.

Da questo punto di vista, l’attacco mira a consentire, dopo la rinnovata apertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia Saudita, una riconoscibilità all’interno della Lega Araba e un più immediato, concreto e definitivo cessate il fuoco nella guerra in Yemen, ormai non più conveniente a nessuno: non ai sauditi che vi hanno speso un patrimonio senza ottenerne vantaggi; non agli Houthi che iniziano a soffrire il rischio di una fronda interna che chiede pace e stabilità economica e che preme per la riconoscibilità internazionale; non agli yemeniti che sono esausti dopo 9 anni di conflitto e di fame nera.

Paradossalmente, la guerra rinnovata in Medio Oriente potrebbe riuscire a dare uno stop alla crisi yemenita, per la quale esiste già una possibilità concreta di accordo, la cui definizione, al momento, è solo temporale.

Laura Silvia Battaglia è una reporter specializzata in aree di crisi e conflitti. Autrice e conduttrice per Radio3, documentarista, collabora con vari media italiani e internazionali. È coordinatrice del master

in Giornalismo dell’Università cattolica.

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